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Finocchiaro: favorire il protagonismo delle donne, garantire pari opportunità

TESI REGIONALI LAZIO


TESI 1 – NOI, I DEMOCRATICI



Ci avviamo verso il primo congresso nazionale dei Giovani Democratici. Questi primi tre anni di vita hanno visto l’organizzazione giovanile impegnata a radicarsi nei territori, nei luoghi di studio e di lavoro, definendo parallelamente il proprio profilo politico rispetto ai temi all’ordine del giorno della discussione nazionale, regionale e locale. Questi primi anni di lavoro hanno consentito ai Giovani Democratici di prendere progressivamente consapevolezza di quale debba essere la funzione di un soggetto generazionale. La stessa esistenza di un’organizzazione giovanile nel PD non era un esito scontato: organizzarsi in un soggetto autonomo è stata la ferma volontà di tantissimi ragazzi accumunati da una specifica visione di fondo della politica e del partito, convinti, in questo modo, di riuscire ad essere l’avanguardia del riformismo italiano ed europeo, non solo rispetto ai temi più propriamente generazionali, ma rispetto ad una visione più complessiva della società. Sul modello del partito “liquido” ci fu imposto di eleggere gli organismi dirigenti dell’organizzazione giovanile tramite “primarie”, cosa che ha creato, come parallelamente accadeva nel partito, non poche storture e disfunzioni. Tuttavia ci siamo rivelati una generazione ben più “solida” di quanto si potesse pensare. Ed è così che l’organizzazione giovanile è stata in questi anni il presidio di una militanza politica che invece al livello dei partiti si andava tendenzialmente perdendo. Si tratta ora di mettere questo progetto su basi politiche ed organizzative più solide. In questo senso il congresso, il nostro primo congresso, è un momento veramente fondativo.



Siamo i Giovani Democratici, l’organizzazione giovanile del Partito Democratico. Non è una semplice constatazione: dirsi Democratici assume oggi un significato storico ed esprime una scelta di campo ben precisa.

Il 6 e 7 ottobre 2006, a Orvieto, i gruppi dirigenti di DS e Margherita decidono la nascita del Partito Democratico. L’accordo di Orvieto è il risultato di un’aspirazione antica, di una riflessione profonda e di un lavoro comune tra i due principali partiti concretizzatosi già precedentemente nell’Ulivo. L’esigenza di garantire la presenza di un soggetto politico che potesse essere da guida della nuova farraginosa maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni del 9 e 10 aprile 2006 ha accelerato il compimento di questo processo storico.

Il compromesso storico negli anni ’70 aveva rappresentato il primo tentativo di avvicinamento sul piano del governo del paese tra due forze, culturalmente diversissime, ma entrambe costituenti, entrambe di massa e di matrice popolare. L’uccisione di Aldo Moro bloccò questo dialogo e PCI e DC si sono poi arroccati su posizioni difensive per il resto della “prima repubblica”. Ma l’aspirazione comune all’azione riformatrice, ancorché solo sul piano del governo, che non poteva realizzarsi nella stagione della guerra fredda e del conflitto tra sistemi ideologici e politici, diventa una necessità storica ineludibile nell’Italia della “seconda repubblica”. Diventava allora necessario, infatti, un soggetto politico che, per la sua forza e le sue radici, fosse in grado di dare una guida politica e morale all’Italia, di ricostruire l’identità distrutta di una nazione moderna e partecipe della costruzione dell’Europa come attore mondiale, una grande forza progressista di rango europeo, che unisse tutte le culture e le forze del riformismo, quelle che s’ispiravano al socialismo europeo, quelle liberaldemocratiche, quelle laiche, quelle cattoliche democratiche, quelle ecologiste, andando oltre la parzialità delle loro singole esperienze per dare una rappresentanza politica unitaria al riformismo italiano. Questo il progetto del Partito Democratico.

L’Ulivo è stato il luogo dell’incontro di queste forze, permettendo loro di riconoscersi reciprocamente e di elaborare una comune lettura della società italiana e un comune progetto politico per l’Italia, fondato in primo luogo sull'aspirazione europeista. E l’Ulivo è stato anche il luogo di incontro dei riformismi laici con il riformismo di matrice cattolica, con la consapevolezza di quanto decisivo e strategico sia nella storia d’Italia il mondo cattolico e di come un'alternativa democratica e di progresso sia assai più difficile se quel mondo volge il suo sguardo a destra.

Da queste fondamenta il 15 ottobre 2007 nasce il Partito Democratico attraverso l’elezione diretta degli organi costituenti nazionali e regionali da parte degli elettori. Questo momento si ripeterà il 14 febbraio 2008 per i gruppi dirigenti locali. È una scelta che vede una larga partecipazione di popolo, ma che in breve mostrerà le sue contraddizioni nella fragilità dei gruppi dirigenti figli delle primarie. Ciò, unitamente alla logica del “partito liquido”, che vede un indebolimento del valore della militanza, ha condotto anche il PD verso un modello di partito fondato su una delega plebiscitaria e deresponsabilizzante ad una leadership demiurgica al livello nazionale e su un ampio margine discrezionale lasciato agli amministratori al livello locale. Proprio al livello locale, inoltre, si stanno sentendo gli effetti dell’assenza di un momento di incontro tra le due anime del partito, come al livello nazionale era stato invece l’Ulivo. La segreteria di Bersani ha segnato un cambio di rotta rispetto a questo modello, ribadendo la centralità del partito e recuperando il ruolo della membership, tracciando inoltre un percorso per la definizione di un profilo politico e programmatico di partito progressista e popolare.

L’idea del Partito Democratico si è rivelata più che corretta. Nel contesto europeo, l’unità dei riformismi in una nuova prospettiva democratica è una scelta vincente, perché è del tutto evidente la parzialità delle tradizioni cattoliche sociali e socialdemocratiche, legate indissolubilmente alle esperienze politiche del Novecento e dell’Europa, in un mondo in cui lo stesso peso relativo del continente europeo è destinato a ridimensionarsi irreversibilmente a fronte di uno spostamento del baricentro politico verso l’Asia e il Sudamerica. Inoltre, dopo la stagione dei governi progressisti negli anni ’90, si è entrati in una fase politica particolarmente sfavorevole alle forze del socialismo europeo, in cui la destra ha dimostrato un primato culturale e politico. Alla prova dei fatti, però, la destra europea non si è rivelata altrettanto in grado di dare risposte; anzi, si dimostra ogni giorno particolarmente fragile sul piano del governo della crisi. E, tuttavia, in nessun paese europeo è emersa finora con forza un’alternativa socialdemocratica. Al contrario, alle elezioni europee del 2009 si è assistito ad un arretramento storico dei partiti del socialismo europeo, che ha consegnato al PD il primo posto in termini di rappresentanti tra i partiti progressisti in seno al parlamento europeo, in un contesto internazionale che aveva visto, invece, l’affermarsi di forze progressiste alla guida delle due più popolose democrazie del mondo, l’India e gli Stati Uniti. Nei paesi emergenti, poi, nessuno dei partiti progressisti al governo è un partito socialista o socialdemocratico, a dimostrazione della limitatezza delle nostre categorie politiche, europee e novecentesche. La stessa decisione di creare, in seno al parlamento europeo, l’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici è in questo senso emblematica.

Tutto ciò non deve assolutamente essere letto come una conferma della tesi, che le forze di sinistre si sono ripetute per anni come un mantra, secondo cui con il crollo del muro di Berlino le ideologie erano morte e si inaugurava una società post-identitaria, per cui anche i partiti, pena l’anacronismo, dovevano essere post-identitari. Ma cosa vuol dire post-identitari? Il berlusconismo, il leghismo, chi ragionevolmente li definirebbe post-identitari? O forse non spargono a piene mani ideologia, cioè senso comune, un sistema di concetti che viene prima della proposta politica e dell’azione di governo, costruendo narrazioni a cui le forze democratiche e progressiste non hanno saputo contrapporre nulla? Chi definirebbe post-identitario il pensiero unico liberista che sottende all’attuale assurda gestione europea della crisi? Si tratta al contrario di capire come le ideologie e le identità del ‘900, che sono tutt’altro che vecchi arnesi di cui disfarsi, possano essere messe al servizio della costruzione di un’identità progressista, decisa e riconoscibile. Le forze democratiche devono affrontare una nuova battaglia per la giustizia sociale, che risponda alle forme inedite in cui questa è messa in pericolo nel XXI secolo al livello planetario.





TESI 2 - CARATTERI DI UN CICLO: ALCUNE RIFLESSIONI SUL QUARANTENNIO PASSATO



Siamo consapevoli di partecipare ad una fase storica di svolta. La crisi iniziata nel 2008 segna la chiusura di un ciclo iniziato negli anni Settanta: il crack finanziario prima, la recessione economica poi ed infine le attuali crisi del debito, con il parallelo acuirsi della questione sociale, sono avvertiti da buona parte della popolazione come punti di rottura dell’assetto economico e sociale che è prevalso nel corso di questo ultimo quarantennio.

Ci sono state alcune caratteristiche distintive del pensiero politico-culturale di questo periodo, riconducibili ad una visione neoliberista: prime fra tutte una visione semplicistica del mercato come quell’istituzione “naturale” che, lasciata a sé stessa, in assenza di ingerenze dei pubblici poteri, è in grado di assicurare il massimo benessere individuale e sociale. Si è proceduto, nel nome di questa visione, largamente egemone in questi anni, lungo la strada della moderazione salariale e della flessibilizzazione del mercato del lavoro, si è esaltato il ruolo del risparmio nel favorire la crescita, si è stigmatizzato l’intervento pubblico, considerato al tempo stesso inefficiente e controproducente, si è teorizzato lo Stato minimo con la demonizzazione del sistema d'imposizione fiscale e la destrutturazione dello Stato Sociale.

E la stessa crisi scoppiata nel 2008 può essere ricondotta in buona parte all’applicazione dei dogmi neo-liberisti: la sua origine viene proprio da salari sensibilmente inferiori al tasso di crescita della produttività, compensati, in particolare negli USA, con una politica del prestito facile, in un contesto finanziario ormai senza vincoli nazionali dominato da diffuse opacità, da estrema volatilità e dal feticcio della liquidità degli strumenti finanziari. Anche Obama, nel suo recente discorso in Kansas, ha evidenziato questi aspetti negativi nello sviluppo economico dei recenti anni. Tutto questo ha generato crescenti disuguaglianze, divari eccessivi fra i redditi da capitale e da lavoro, e squilibri internazionali difficilmente sostenibili nel lungo periodo.



Le caratteristiche di questo quarantennio però non sono riducibili esclusivamente ai processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, o a una rivoluzione politica conservatrice, ma sono il frutto di un mutamento in buona parte “endogeno”, nel senso che è conseguenza del procedere della divisione del lavoro (nazionale e internazionale) e del progresso tecnologico e, in buona parte, figlio della degenerazione degli assetti sorti nel dopoguerra. Insomma, hanno giocato un ruolo decisivo l'evoluzione nei consumi, nelle classi sociali, nelle produzioni, l'emergere delle economie del terzo mondo, Cina e India in testa, gli enormi sviluppi nella tecnologia dei processi produttivi e nel sistema delle comunicazioni.

Un peso decisivo ha avuto l’evoluzione della struttura sociale dei paesi occidentali. Già all’inizio degli anni ’70 era chiaro che il benessere generato durante il boom del secondo dopoguerra e l’avanzare spedito del processo di divisione del lavoro avevano prodotto, come risultato, l’estensione di un ceto medio enormemente differenziato al livello di reddito, al livello culturale, di stili di vita, ecc. E' proprio l’espansione del ceto-medio, con la connessa crescente domanda di remunerazione selettiva, che costituisce la pulsione disgregatrice principale degli assetti emersi dalla II guerra mondiale. Un altro aspetto dell’evoluzione della struttura sociale è stato l’aumento del peso della rendita finanziaria nella distribuzione del reddito (e quindi anche del peso politico), per cui il modello principe dell'impresa capitalistica è diventato la società per azioni e l’attenzione dei risparmiatori si è spostata dalla valutazione della redditività dell’investimento alla previsione di come i mercati avrebbero valutato il prezzo di un’attività, rendendo estremamente volatili i prezzi (e specularmente il rendimento degli investimenti) e richiedendo un elevata liquidità degli strumenti finanziari. Con il soddisfacimento generalizzato dei bisogni primari connesso al crescente benessere, sono emersi poi prepotentemente nuovi bisogni eterogenei: si è passati dalla società di massa alla società dominata dagli status symbol, dove i “creatori di simboli” (calciatori, pop-star, uomini dello spettacolo, grandi pubblicitari, top manager, ecc.) sono diventati la nuova classe di super ricchi.



Se leggiamo i “Trent’anni” puramente con la chiave interpretativa del liberismo, senza indagare sulle mutazioni sociali, non riusciamo a collocarvi il fenomeno Berlusconi. Egli vuole il laissez faire, laissez passer solo per quanto riguarda la sua attività di imprenditore, ma non è contrario ad interventi pubblici di sostegno a specifiche attività, come il sostegno finanziario alla diffusione dei decoder per la televisione digitale terrestre o come addossare allo stato le passività Alitalia; non si pone certo problemi d’identità politica quando le politiche del suo governo si muovono in direzione contraria a quei principi tipicamente liberali di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e di eguaglianza nei punti di partenza; non si può certo dire che sia stato attivo nel realizzare concretamente quella teorica “concorrenza perfetta”. E' stato piuttosto il garante di una serie di interessi del capitalismo italiano, dei ceti piccolo-imprenditoriali del nord e della vecchia classe dirigente del sud, al crocevia fra istanze modernizzanti, reazioni difensive alla globalizzazione, vecchio clientelismo all'ombra del potere pubblico e degli enti locali.

 

In questo scenario, la crisi della sinistra nasce in quella che è stata chiamata “crisi fiscale dello Stato Sociale”. Si è cioè diffusa nell’opinione pubblica la convinzione che il crescente prelievo fiscale era solo in parte il corrispettivo di prestazioni sociali utili, ma in parte significativa derivasse dagli sprechi connessi ad una degenerazione burocratica dello Stato Sociale, al servizio non del cittadino ma del pubblico impiego: una burocrazia pubblica volta unicamente a auto-perpetuare se stessa nei suoi privilegi, a spese dei lavoratori. Piuttosto che per il carattere convincente delle sue ricette iperliberiste, la “rivoluzione conservatrice” ha avuto buon gioco perché ha denunciato mali evidenti a tutti, davanti ai quali le forze progressiste, soprattutto quelle di matrice socialdemocratica, non riuscivano, per limiti culturali e assetti sociali e organizzativi consolidati (in primis il rapporto con i sindacati), ad elaborare una risposta. La sinistra occidentale, infatti, aveva creduto, fin dalla I guerra mondiale, di bilanciare la scelta di campo dell'economia di mercato con l’idea che in un sistema capitalistico il progresso civile e lo sviluppo della democrazia derivassero da un’espansione della sfera pubblica. Da questa incapacità della sinistra è derivato anche un fondamentale spostamento a destra dei ceti popolari e produttivi.



Un altro grande problema che ci lascia aperto questo ciclo quarantennale è quello dell’assetto democratico delle società occidentali, e in primo luogo di quella italiana, in cui questo problema fa tutt’uno col dibattito sulla c.d. “Seconda Repubblica”, cioè questo periodo di incertezza culturale e istituzionale sui caratteri della nostra democrazia che perdura ormai da diciassette anni. E' innegabile che abbiamo assistito su scala europea ad una trasformazione del sistema democratico che investe sia il modo di concepirne il funzionamento, sia il suo concreto funzionamento e che riguarda tutti gli elementi costitutivi del sistema: le istituzioni e i poteri che rappresentano, i partiti, la società. Quali sono i contenuti di questa trasformazione?

1.    La verticalizzazione della leadership, il mito del decisionismo e la conseguente personalizzazione della politica nati come risposta alla richiesta di maggior efficienza, velocità e capacità di decisione nei processi decisionali. Ne è derivato un modello di partito incentrato sulla figura del leader che, sciolto dalla logica complessa dell’organizzazione, si rapporta direttamente con i media per attirare il gradimento di un’opinione pubblica ritenuta ondivaga. Parallelamente all’indebolimento della membership e al processo di accentramento verticistico, i partiti hanno dovuto lasciare ampio margine di manovra ai leader locali, che sono venuti naturalmente a coincidere con gli amministratori; un duplice processo che ha portato ad un partito del leader al livello nazionale e ad un partito degli eletti al livello locale.

2.    Una scarto tra la costituzione materiale e quella formale, prodotto soprattutto tramite le leggi elettorali e il comportamento dei partiti, che è consistito nello svilimento della democrazia parlamentare e nello scivolamento in una forma di presidenzialismo di facciata non regolato, in cui la distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo si è fatta labile.

3.    L’emergere, il diffondersi e il radicarsi nel senso comune di una retorica antipolitica basata su una contrapposizione artificiosa tra società partitica, descritta come casta impegnata esclusivamente a perpetuare se stessa nei suoi privilegi, e società civile. Alla democrazia “partitocratica” (cioè la democrazia rappresentativa di rilievo costituzionale) si oppone una fumosa democrazia “reale” o “partecipativa”, emblematizzata da internet, ma che alla prova dei fatti si riduce spesso a manifestazioni di gradimento, di sapore plebiscitario, verso il capopopolo di turno.





TESI 3 – IL CROLLO DI BERLUSCONI E IL RISVEGLIO DELLA SOCIETA’



L’anno che abbiamo appena concluso ha visto il crollo della maggioranza berlusconiana. Dopo un lungo processo di logoramento, all’apice di un’emergenza economica che rischiava di affossare definitivamente il paese e ridurlo a catalizzatore di una crisi di dimensioni globali, si sono create anche in Parlamento le condizioni per togliere la maggioranza ad un governo che già da 10 mesi navigava a vista, sorretto da un’improbabile puntello, l’improvvisato gruppo dei Responsabili. Lo spread del debito pubblico, indicatore di dubbia rilevanza economica, è diventato il simbolo della crisi di governo, irrompendo violentemente nel dibattito italiano a testimone del fallimento di Berlusconi nella sua azione di governo. Quasi a ricordarci ogni giorno che il mascheramento della crisi economica non ha funzionato. Ma le ragioni della caduta di Berlusconi sono molto più profonde, la narrazione è più ricca e non deve essere rimossa dal dibattito pubblico, perché rischiamo di assegnare un carattere contingente a elementi strutturali e diamo modo alle destre di riorganizzare un terreno di confronto politico a loro congeniale.



Ha avuto sicuramente un ruolo significativo la doppia sconfitta del centrodestra alle amministrative e ai referendum, ma anche una stagione di risveglio di settori dormienti della società italiana. La manifestazione “Se non ora, quando?” è stata il segno di un’insofferenza profonda dei ceti medi intellettuali nei confronti di uno stile istituzionale di gestione del potere, rivelando nella stesso tempo una nuova consapevolezza rispetto a conquiste civili sul ruolo della donna che forse si davano troppo prematuramente per vinte da quarant’anni a questa parte. I movimenti referendari per l’acqua e per i beni comuni, che hanno tenuto assieme una vasta pluralità di forze sociali, dall’ambientalismo al mondo cattolico e alla sinistra, hanno ridisegnato un’agenda politica caratterizzata fino a quel momento, nel rapporto fra Stato e società, dall’ossessione dello Stato minimo e dalla libertà personale intesa come istinto all’individualismo irresponsabile, rimettendo al centro la questione del pubblico in Italia e della sostenibilità civile, economica ed ambientale di un modello di sviluppo incentrato sull’uso illimitato delle risorse. Le mobilitazioni giovanili sulla precarietà, a partire dal comitato “Il nostro tempo è adesso” e dalla manifestazione del 9 aprile, hanno acceso i riflettori sulla questione del lavoro, interpretato in questi anni come pura variabile dipendente della crescita economica, e hanno trasformato la precarietà da questione sindacale, come era stata negli anni del centrosinistra al governo dal 2006 al 2008, a questione politica generale. Le battaglie contro la riforma Gelmini, che sono vissute negli atenei italiani nell’autunno scorso, sono state il collettore di istanze diverse: si sono uniti il grido disperato dei giovani ricercatori preoccupati del loro futuro e del decadimento delle istituzioni universitarie e l’esigenza degli studenti di affermare una soggettività non riconosciuta dalla società. A queste mobilitazioni, possiamo aggiungere gli scioperi sindacali e le proteste rispetto agli accordi di Pomigliano e di Mirafiori, che, a prescindere dalle questioni strettamente sindacali, ponevano il problema degli effetti di una globalizzazione affidata esclusivamente alla competizione sul costo del lavoro e di una politica industriale completamente assente dall’azione governativa. Il mondo della cultura, nel contestare i tagli alla produzione culturale, ha dimostrato di voler affrontare una riflessione più generale sulla crisi di un paradigma politico-culturale, sul sapere nella società moderna e sul ruolo dell’intellettuale, condendo l’occupazione del Teatro Valle in primis, ma poi tutti i vari momenti di protesta, con espressioni creative di impegno civile.

C’è stato, insomma, un risveglio nella società. Ha viaggiato in maniera molecolare, su istanze particolari che affermavano, però, questioni generali. Sono stati diversi i canali attraverso i quali si sono organizzate le mobilitazioni: sindacati, quotidiani d’opinione, associazioni, centri sociali, salotti, parrocchie, social network, in un intreccio variegato di soggetti e strumenti. Tutti questi movimenti hanno visto la presenza dei Giovani Democratici, così come il partito, a servizio di questo risveglio e mai con l’intento di strumentalizzarlo per operazioni mediatiche di protagonismo, tipiche di una stagione da chiudere definitivamente. È stata una presenza dialettica, che, nel sostenere i movimenti, ha evitato coscienziosamente di esaurire la propria soggettività politica in una somma delle differenti particolarità, ma, anzi, non ha rinunciato a segnalarne i limiti di maturità e le carenze negli sbocchi politici.

   

Molte di queste proteste hanno poi avuto un momento di convergenza nella manifestazione del 15 ottobre. Perché ci è rimasta tanto impressa quella manifestazione? Sicuramente perché la violenza di quel giorno ha segnato una pagina brutta di questa stagione di risveglio politico e perché abbiamo visto in pericolo, sulla nostra pelle, la stessa libertà di manifestare democraticamente. Ma non è solo quello. È anche la consapevolezza che in quella manifestazione, momento più alto di elaborazione e di sintesi di un pezzo del movimento, e segnatamente quello nato nell’incontro fra FIOM, centri sociali, movimenti per i beni comuni, si sono mostrati contemporaneamente tutte le potenzialità e tutti i limiti di una determinata costruzione dell’alternativa al neoliberismo. Ad una lettura approssimativa, ma tendenzialmente corretta, della crisi globale, si è accompagnata, negli spazi di discussione online e nell’assemblea all’ex-cinema Palazzo, una piattaforma con venature antipolitiche e giustizialiste e con un sostanziale rifiuto della democrazia rappresentativa nel nome della riappropriazione e dell’autorganizzazione dei beni comuni. Se l’Europa come discorso politico e il mondo come luogo della protesta, che stavolta più di altre hanno visto il supporto dei nuovi strumenti di comunicazione, sono stati un punto di forza di una critica radicale al pensiero dominante degli anni scorsi e il sale di una inedita partecipazione democratica, la teorizzazione del conflitto come unica prassi politica e dell’unità inviolabile del movimento hanno portato alla sua autoreferenzialità e a farlo rimanere fermo rispetto alla ricerca di un’interlocuzione con i partiti e con gli altri soggetti sociali che non fosse fondata sulla loro subalternità rispetto al movimento stesso. L’esaltazione della destatalizzazione e della delega diretta e deregolamentata ai corpi sociali è stata uno dei caratteri di questa mobilitazione, che non a caso comunica su Twitter sotto l’ashtag “Occupy”. Alla ricerca di una nuova dimensione del vivere collettivo si è data una risposta limitativa, perché si è preferito espellere il problema della cittadinanza e della rappresentanza.

La violenza di quel giorno, espressione più preoccupante dei limiti intrinseci in quella manifestazione, ha segnato definitivamente un solco nella costruzione di un movimento che potesse maturare e dotarsi di una piattaforma politica più robusta e condivisa. I Giovani Democratici ci sono stati, e la nostra partecipazione insieme al comitato “Il nostro tempo è adesso” ha segnato un punto di presenza politica che ci ha reso interlocutori credibili delle esperienze di movimento, ma adesso dobbiamo avere la consapevolezza che il nostro obbiettivo per i prossimi mesi non è né fiancheggiare dall’esterno, né voltare lo sguardo dall’altra parte. Il nostro obbiettivo è portare sempre più una nostra narrazione e un’autonoma lettura dei problemi nell’interlocuzione con le altre realtà organizzate del movimento, soprattutto quelle a noi culturalmente più vicine, e con la nostra generazione in generale, a partire dai suoi luoghi di socialità. Possiamo imparare molto dalle esperienze sociali che si sono rese protagoniste di questo risveglio, dalla loro elaborazione e dalle loro pratiche; nello stesso tempo, possiamo dare anche noi un contributo alla costruzione di sintesi più avanzate e candidarci, in ultima battuta, a rappresentarle a livello politico, sempre immersi nella sfida di ricostruire quel legame più saldo fra politica e società che è elemento imprescindibile della democrazia.



Le cause dello sfaldamento della maggioranza berlusconiana, la più grande nella storia della seconda repubblica, non si possono ricercare solo nello spread o nell’opposizione politica di partiti e movimenti sociali. Ragionare sui motivi che hanno portato all’indebolimento di Berlusconi dentro un PDL balcanizzato, alla fuoriuscita di Fini e adesso alla rottura dell’alleanza con la Lega Nord, non è argomento futile o da storici, e sarà una delle questioni su cui dovremo interrogarci più a fondo. Infatti, parlare della crisi di Berlusconi consente di identificare più facilmente i caratteri del berlusconismo, del perché intorno a questa ideologia si sia cementato un blocco sociale egemonico in questo paese. Significa cioè lavorare per uscire definitivamente e in maniera progressista da questo decennio.

Le questioni sono molte: l’isolamento europeo e internazionale, particolarmente evidente nella vicenda libica, i contrasti con la Chiesa sul caso Boffo, l’impatto della crisi economica sul tessuto produttivo italiano, gli scandali privati di Berlusconi, le grane giudiziare del primo ministro e le inchieste sulle lobby illecite che lavoravano all’ombra del governo, i contrasti fra Lega e PDL e quelli fra Tremonti e gli altri ministri. Non può essere considerato un caso il fatto che la fronda interna alla maggioranza, che ha portato poi alla costituzione di Futuro e Libertà, nasca all’apice del trionfo della destra, cioè dopo quelle amministrative  del 2010 che avevano visto un deciso avanzamento delle forze governative e soprattutto della Lega Nord, con la conquista delle presidenze regionali in Veneto e in Piemonte.

Queste riflessioni le dovremo fare noi in primo luogo, per un motivo semplice. Noi siamo nati nel berlusconismo. La politica che abbiamo visto, che abbiamo sentito, che abbiamo vissuto intorno a noi era impregnata di questa ideologia. Abbiamo assorbito le sue categorie e i suoi punti di vista. Il brodo culturale nel quale siamo stati immersi e i ragionamenti sui quali siamo stati coinvolti e chiamati ad esprimerci, soprattutto una organizzazione giovane come la nostra, sono stati il frutto di questo sistema politico, di cui il centrosinistra ha fatto parte a pieno titolo. Chiuderci per mesi in discussioni sulle primarie come forma identitaria del Partito Democratico, logica conseguenza della decisione di fondare il partito con quello strumento e con quell’impostazione politica, oppure pensare che le riforme istituzionali fossero l’unico terreno di confronto con il centrodestra, come per un periodo subito dopo le elezioni del 2008 abbiamo fatto, sono stati esempi di come il PD per primo sia stato parte attiva di una distorsione tecnocratica e populista del dibattito politico italiano. Non bisogna banalizzare e mitizzare il peso simbolico di Berlusconi, ma riconoscere che ad un certo punto ha rappresentato qualcosa di più in questo paese che non il leader della coalizione di centrodestra. Ecco, il primo passo sarà proprio questo: riportarlo con i piedi per terra e ricondurlo ad emanazione, seppure peculiare, della forma populistica che la destra ha avuto in questo ciclo quarantennale in Europa. Se siamo nati nel berlusconismo, dovremo essere i primi ad uscirne, perché altrimenti perderemo il contatto con una generazione che la crisi economica e i problemi quotidiani hanno già portato oltre.







TESI 4 – IL GOVERNO MONTI E IL RUOLO DEI GD



La via d’uscita dalla crisi politica del governo è stata la formazione del governo Monti. Un governo politico, nato per un’emergenza tutta politica, grazie alla lungimiranza del Presidente della Repubblica e al senso di responsabilità del Partito Democratico. Nasce in Parlamento e ne ha il sostegno, ma la sua legittimazione è debole non perché sia formato da tecnici o perché non abbia il sostegno dalla maggioranza così come è uscita dalle ultime elezioni. La debolezza del governo Monti risiede nell’ambiguità con cui il PDL lo sostiene, un misto di timido silenzio e sparate populiste, e nei limiti profondi di questa legislatura parlamentare, frutto del meccanismo incrociato di una legge elettorale pericolosa e di partiti deboli, che ha creato una sorta di “palude” che vive di trasformismo. 

È un governo necessario. Ci deve riportare in Europa. E deve riportare un po’ l’Europa verso l’Italia, perché se c’è una nazione che soffre il basso tasso di europeismo delle politiche europee e il richiamo esclusivo all’austerità in questo momento siamo proprio noi. Questa è la sua prima missione ed è quello che deve giustificare il sostegno dei Giovani Democratici a questo governo. Dobbiamo essere coscienti della portata del momento storico, e capire che è necessario che l’Europa faccia urgentemente un salto di qualità per salvare se stessa. Non ci sono margini su questo per ambiguità, anche se non è semplice spiegare alla nostra generazione, già disillusa dalla politica, che tagli e misure di scarsa equità sociale sono bocconi da ingoiare per riportare il nostro paese ad un tavolo di trattative europeo.

Non è un governo di centrosinistra. La maggioranza parlamentare che lo sostiene non ha un programma di governo condiviso ed è composta anche da coloro che ci hanno portato a questo disastro. Questo è il motivo per cui non possiamo e non potremo essere d’accordo con tutte le misure che esso prenderà, e per cui molti interventi, che noi avremmo fatto, questo governo non potrà metterli in piedi. Se gli orizzonti dell’azione governativa sono rigore, equità e crescita, il modo in cui questi sono declinati va di volta in volta valutato alla luce della nostra idea di sviluppo del paese e di riforma delle istituzioni. Nella manovra approvata a dicembre, sul piano dell’equità si poteva fare di più; se la direzione di marcia è quella giusta, con una forma di tassazione patrimoniale e un contributo di solidarietà a carico dei super-ricchi, con qualche incentivo per l’innovazione, ecc., la quantità è insufficiente, e si accompagna ad alcune misure sinceramente odiose, come la deindicizzazione delle pensioni. L’atteggiamento del PD e dei GD dovrà essere costruttivo nell’incidere sulle decisioni del governo, ma capace di dare segnali chiari rispetto alla nostra idea per lo sviluppo del paese, in un confronto costante con le forze sociali. Se alcune manifestazioni popolari, contrarie ad alcuni provvedimenti del governo, avranno un atteggiamento costruttivo e si porranno in una logica congeniale al disegno politico, così come uscirà dal congresso, di cui siamo portatori, allora dovremo dialogare con quella piazza. Diverso è il caso ad esempio delle manifestazioni studentesche che hanno seguito la formazione del governo Monti, invero piuttosto minoritarie, convocate su una piattaforma che riconosceva in questo nuovo governo solamente l’espressione tecnocratica della politica del ciclo passato. 

Il governo della ricostruzione, che ci consenta di mettere in pratica il nostro programma per uscire dalla crisi economica e dalla crisi delle istituzioni, non è necessariamente questo, ma si costruisce a partire da questo e da questa fase politica in Parlamento e nel dialogo fra le forze politiche e con la società. Non dobbiamo correre il rischio di pensare che questo governo sia una sospensione o un commissariamento della politica, limitandoci magari esclusivamente a sottolineare dei distinguo rispetto all’azione governativa per conservare un nostro blocco sociale di riferimento. Non dobbiamo nemmeno pensare che il governo, libero dal vincolo della presenza dei politici, potrà fare i sacrifici necessari a rimettere in sesto i conti pubblici e attuare riforme impopolari, lasciando la politica libera di riprendere un suo corso naturale nel momento successivo: sarebbe l’atteggiamento migliore per tenere in vita il berlusconismo e rinunciare a ridare dignità alla politica e ai partiti. Al contrario, questa è la fase in cui la politica, e per primo il PD, deve marciare sempre più velocemente, in cui deve riannodare i fili di un rapporto con la società e le giovani generazioni sulle scelte di fondo che il paese dovrà prendere nei prossimi anni, in cui deve sviluppare narrazioni che contribuiscano a dare senso alla vita collettiva, in cui deve completare la costruzione del partito a partire da nuove prassi, ridando dignità alla rappresentanza politica. Europa, modello di sviluppo, istituzioni, sono orizzonti sui quali bisognerà, in una direzione o in un’altra, imboccare nei prossimi anni cammini che decideranno il futuro della democrazia italiana. Ogni movimento, istanza della società, partito politico, che vada nella direzione della ricostruzione del paese su una strada compatibile con la nostra, deve essere oggetto in questo senso della nostra attenzione e coinvolto nella costruzione di una vasta alleanza politica e sociale. In questa fase e su questo progetto ogni soggetto politico e sociale con cui interloquiremo non potrà rimanere uguale a se stesso, ma nel nome della costruzione complessiva di un progetto di governo di portata costituente dovrà mettere in gioco la sua stessa identità. I GD dovranno essere i primi, assieme al nostro partito, a mettersi alla guida di questo processo, sicuri che solo sul successo di questa sfida si misureranno le capacità di una nuova classe dirigente. È adesso che va combattuta la battaglia più dura per uscire dal berlusconismo, quella che ci consente di ribaltare non solo una maggioranza, ma di chiudere un ciclo e abbattere definitivamente un sistema politico. Questa sfida spetta soprattutto a noi. È a noi che spetta, nel coinvolgimento continuo e nel confronto con le nuove generazioni, andare alla ricerca di categorie politiche all’altezza dei problemi che vogliamo affrontare. È a noi che spetta affermarle nella nostra generazione e nella società. 





TESI 5 - LA CITTADINANZA DEL XXI SECOLO: IL RUOLO DI UNA GENERAZIONE POLITICA



 “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” Art.3 Costituzione della Repubblica Italiana



•    All’Italia ed all’Europa spetta oggi fare scelte di fondo che chiudano questo ciclo quarantennale e ne aprano un altro. Queste scelte determineranno verso quale modello di società il nostro paese vuole tendere. Non bisognerà fare lo stesso errore del 2008, quando si pensava, di fronte alla catastrofe della crisi economica, che fosse sufficiente l’evoluzione naturale degli eventi per sconfessare un pensiero trentennale: un nuovo corso non sorgerà automaticamente dal fallimento del vecchio, ma c’è bisogno di una visione politica di fondo che guidi coscientemente i processi politici ed economici. Ma, per questo, è necessario in primo luogo recuperare una concezione di politica come il compito storico che abbiamo davanti, rigettando quella visione che riduce la politica ad ordinaria amministrazione.

Noi siamo dentro la storia e rifiutiamo il massimalismo e l’antagonismo: siamo figli dello storicismo e del materialismo storico, dell'idealismo crociano, del pensiero cattolico democratico, dell'etica kantiana della responsabilità, dell'illuminismo repubblicano. I nostri punti di riferimento sono l'antifascismo e la Costituzione repubblicana. Solo così, con il recupero della responsabilità morale e delle radici storiche della politica, è possibile chiudere questo ciclo quarantennale e porre le basi per un mondo più giusto, più equilibrato. Riscopriamo quindi i motivi per una rinnovata militanza in un’organizzazione giovanile: il ruolo generazionale come ruolo storico, perché noi vogliamo cambiare il mondo. E proprio per poter svolgere questo ruolo, nella società odierna, abbiamo bisogno dei Giovani Democratici come organizzazione giovanile di massa, capace di penetrare in ogni piega della società e di esercitare una direzione politica dei processi.

•    Al comunitarismo e all'individualismo contrapponiamo la società plurale e solidale e l'emancipazione della persona nelle sue relazioni sociali. Società plurale e solidale vuol dire riconoscere il valore delle differenze religiose, culturali, di genere, proprie dell'individuo, nel nome di principi etici condivisi e del metodo democratico, propri di una società. E si deve accompagnare allo sforzo collettivo della società e delle istituzioni per mettere ognuno nelle condizioni di esprimere la sua libertà senza soggezioni: la dignità dell’uomo conosce continuamente nuove sfide e continuamente è messa in pericolo in forme inedite. Oggi si rischia, ad esempio, una nuova profonda frattura sociale tra chi è padrone di un sapere e chi ne è succube, tra chi è incluso in un processo di apprendimento e chi ne è escluso, con un ampliamento delle disuguaglianze di reddito, giacché la quantità del lavoro è sempre meno misura della sua remunerazione, che viene maggiormente a dipendere dalla qualità, dalla qualificazione e dalla responsabilità nel processo produttivo. Libertà ed emancipazione sono l'unico modo per permettere all'uomo di sviluppare la propria soggettività in costante relazione con gli altri.

•    Noi siamo la polis, e siamo cittadini di questo mondo, anche se cittadini “incompiuti” a causa di  una rappresentanza politica privata di mediazioni e ridotta al populismo, di un patto sociale rotto dalla precarietà e dalla disoccupazione senza opportunità e diritti, dell'istruzione statale indebolita dai continui tagli, non adeguata al suo ruolo nella società. Il ruolo di supplenza, spesso svolto, in Italia, da famiglie, partiti, comunità locali, Chiesa, non è più sufficiente, perché anche quelle istituzioni sono parzialmente in crisi, indebolite da questo ciclo storico-politico. Affermare la cittadinanza del XXI secolo è quindi il compito di una generazione politica, perché è passaggio necessario per ricreare quel rapporto fra individuo e società che consenta al più debole di uscire da una condizione di subalternità, per affermare le possibilità di sviluppo della persona umana e l’effettività e la pienezza della partecipazione democratica. Servono istituzioni nuove e modelli di sviluppo adeguati alle sfide della globalizzazione e della società odierna, e per affermarli non basta un programma, ma serve la capacità collettiva di aprire un terreno di riflessione e di azione politica che coinvolga direttamente la mappa dei poteri italiana, stimolando processi di cambiamento in  tutti gli spazi democratici del vivere civile. Significa disegnare il perimetro di una battaglia politica che tenga assieme una costante tensione alla democrazia con la sfida per uno sviluppo economico-sociale equo e sostenibile, in cui società della conoscenza, welfare universalistico, riforma dell’istruzione siano aspetti strettamente intrecciati che non possono camminare disgiuntamente. Su queste basi possiamo essere in grado di mobilitare un paese intero verso una riscossa civile e offrire una piattaforma credibile per una generazione che deve pensare e mettere in moto una politica diversa da quella egemonizzata dal berlusconismo.

•    La prima questione per ripensare la cittadinanza del XXI secolo è interrogarci su dove risieda la sovranità oggi e sulla legittimità democratica delle decisioni politiche. Il processo di declino degli Stati-nazione, privi della possibilità di fare guerre e di conquistare colonie, non ha parallelamente lasciato spazio ad altri luoghi sovrani per risolvere i conflitti e pianificare il futuro. La sovranità europea è l'obiettivo, che deve essere raggiunto favorendo opportunità d'accesso indiscriminate alla dimensione europea e integrando i sistemi politici, economici, sociali e culturali. L’Europa non deve più essere, com’è stato nella logica neoliberista che l’ha guidata negli anni ’90-‘00, solo il luogo delle elites economiche e politiche, il luogo della negoziazione intergovernativa, ma deve essere sempre più uno spazio comune, dove far sviluppare nell’opinione pubblica un’agenda politica condivisa sul futuro dei paesi UE e sul ruolo che essi devono svolgere nel mondo, dove si devono intrecciare sempre di più sensibilità culturali, processi economici, esperienze di vita. E’ l’unico modo per evitare il risorgere di nazionalismi o pericolose derive xenofobe, come sta invece accadendo in Ungheria o come lasciano presupporre le inquietanti reti di complicità dietro l’attentato in Norvegia. Sul terreno strettamente politico, la questione è superare la dimensione intergovernativa del governo dell'Unione Europea e rafforzare i partiti europei e il loro luogo di confronto, il parlamento.

•    Il dibattito ad oggi in Europa è tutto incentrato sull'agenda imposta dai conservatori, sul falso dilemma fra stabilità e crescita, sull’austerità fiscale come panacea a tutti i mali. La spinta verso riforme internazionali incisive della regolamentazione finanziaria, che era forte al sorgere della crisi, va via via indebolendosi man mano che il comparto finanziario sembra riacquistare profili di maggiore stabilità, e i risultati del G20 rimangono deludenti. Infine, di fronte alle prime difficoltà di bilancio derivanti dall’aumento dei deficit pubblici e dall’arresto della crescita, l’Europa si è arroccata nuovamente in una visione monetarista: stabilità monetaria e tagli. Visione che non fa che alimentare la spirale recessiva. Il punto dovrebbe essere, invece, la costruzione del modello sociale europeo, nell'ottica non solo dell’apertura dei mercati, ma della convergenza dei sistemi economici e dell'armonizzazione delle politiche economiche e sociali attraverso una governance economica europea, a partire dalla gestione comune del debito e da investimenti comuni (eurobond, riforma della BCE), per una cittadinanza veramente europea. Deve essere fondato su politiche pubbliche per uno spazio europeo della ricerca e dell'innovazione, e portare ad uno sviluppo incentrato sulla domanda e sulla riduzione degli attuali squilibri fra paesi e dentro i paesi.





TESI 6 - CRISI DELLE ISTITUZIONI E CRISI ECONOMICA: SOCIETA’ DELLA CONOSCENZA E WELFARE UNIVERSALE



•    Riforma delle istituzioni, elemento necessario per affermare una rinnovata cittadinanza, significa ripensare lo spazio democratico, e definire ruolo, regole e confini dello Stato, degli enti locali, del mercato, dei partiti, della società intesa nei suoi mille rivoli diversi. Non possiamo disgiungere l'obiettivo di una nuova legge elettorale, che faccia ritrovare una capacità di rappresentanza dei partiti in Parlamento e assicuri la governabilità, o il diritto di voto da attribuire ai residenti stranieri in Italia, da liberalizzazioni che amplino gli spazi del mercato in settori non caratterizzati da monopoli naturali o da un sistema fiscale che sposti il peso della tassazione sulle rendite finanziarie e immobiliari, o altri esempi similari, perché la questione è come orientare sempre più in chiave democratica la mappa dei poteri italiana nell'ottica della capacità del sistema di assumere un ruolo nel contesto europeo e mondiale. Efficienza, equità e democrazia vanno di pari passo per creare una società più giusta e ridare all'Italia una spinta propulsiva di cui le giovani generazioni hanno bisogno.

•    Negli anni '90 e 2000 la forbice delle disuguaglianze è cresciuta enormemente, e la crisi ha impattato su una situazione già socialmente difficile, costringendo alla chiusura migliaia di imprese e aumentando vertiginosamente le ore di cassa integrazione e i licenziamenti. I risparmi delle famiglie, in Italia consistenti, si stanno assottigliando e rischiano nei prossimi anni di non riuscire più a svolgere quella funzione di ancora di salvataggio rispetto a un welfare strutturalmente inadeguato. I più penalizzati, da questo punto di vista, sono i giovani e le donne. Questa è l'emergenza: misure di protezione sociale, lavoro e piccole opere, sostegno ai consumi per le fasce deboli, per far ripartire la domanda interna, senza la quale non vi è una crescita endogena.

•    Davanti ai cambiamenti nel sistema economico mondiale degli ultimi decenni, i paesi europei possono scegliere tra due vie: lo sfruttamento del lavoro, in un processo di ricambio sempre più frequente della forza lavoro occupata, mirando ad una competizione di prezzo sui mercati internazionali, oppure l’arricchimento e la riqualificazione continua del lavoro, interpretando la flessibilità come mobilità sostenuta da un elevato patrimonio professionale e mirando ad una competizione internazionale basata sull’innovazione. Puntare sull'innovazione di prodotto e di processo, che poi vuol dire creare la società della conoscenza. Non basta investire su scuola, università e ricerca (che pure è indispensabile), ma attrezzare un contesto complessivo favorevole a questa trasformazione del sistema produttivo italiano, compresa la valorizzazione del lavoro, la formazione, le infrastrutture, amministrazioni trasparenti ed efficienti, un sistema finanziario efficiente. Il corollario è favorire una nuova imprenditorialità e l’apertura di una pagina più avanzata del capitalismo italiano, che coniughi territorio, vocazione sociale, apertura internazionale, capacità di fare rete, rapporti con gli enti di ricerca, e consideri il lavoro come snodo fra queste relazioni. Quindi, per fare due esempi di cui si discute molto, a cambiare deve essere non solo il diritto del lavoro o il sistema d’istruzione, perché la scelta rispetto a quale modello di sviluppo tendere non è una questione tecnica o economicista e che consegna alla politica solo una parzialità di problemi separati da affrontare e risolvere rispetto a interessi contrapposti. La scelta sul modello di sviluppo è, invece, il crinale sul quale passa la differenza fra reazione e democrazia, fra chi vuole mantenere il potere concentrato in una mappa predefinita ed esclusiva di relazioni e chi pensa, nell’incessante movimento della storia, ad un’evoluzione democratica delle relazioni politiche all’insegna dell’inclusione sociale. In questo senso la società della conoscenza può essere, prima di tutto, la forma di un nuovo compromesso fra capitale e lavoro, in cui il rapporto non sia più quello di dipendenza del lavoro dal capitale in cambio di una serie di diritti.

•    Esiste quindi una tendenza potenziale, consistente nella possibilità di superare il lavoro “astratto”, il lavoro meramente esecutivo, con il lavoro come espressione della creatività e delle qualità della persona. Questa tendenza si scontra da un lato con le contraddizioni presenti nella gestione d’impresa, in molti casi ancora legata ad un’organizzazione del lavoro di tipo tayloristico, e dall’altro con una ideologia della flessibilità che ha portato alla moltiplicazione delle forme contrattuali e ai tentativi di competere esclusivamente sul costo del lavoro. Il lavoro oggi, invece, non può più essere inteso solo come fonte di reddito per consumi, ma come realizzazione della personalità e contributo alla società. Il paradigma della società dei consumi sta crollando con il lento assottigliarsi in questi anni della classe media, che sta perdendo la funzione di classe generale e vede messa in crisi la sua stessa identità, ma ancora permangono le contraddizioni esplicitate sopra. Il riconoscimento di questo valore sociale del lavoro deve essere fondamento del patto sociale di diritti e doveri della cittadinanza moderna. Vuol dire abbandonare il dualismo del mondo del lavoro, a cui si aggiunge la posizione peculiare dei lavoratori stranieri, confermare il contratto unico nazionale, riportare il lavoro flessibile ad una dimensione interna alle imprese, affrontare la questione di un nuovo welfare che accompagni i percorsi lavorativi individuali, ripensare l’impresa e le forme di distribuzione del profitto.

•    Il PD e i GD hanno cominciato da tempo a dare risposte chiare su alcuni dei problemi legati alla società della conoscenza: l’urgenza sociale di un forte investimento in istruzione che garantisca l’effettività del diritto allo studio, la necessità che un’ora di lavoro flessibile costi più di un’ora di lavoro stabile, ecc. Si tratta di capire che tutto ciò ha un senso solo se l’uniamo ad una riflessione sulla rinascita del sistema di welfare, abbandonando l’assetto laburistico-corporativistico per una complessiva evoluzione in senso universalistico.

In particolare, a causa delle mutazione del mondo del lavoro, all’interno del sistema di welfare è assolutamente prioritario riorganizzare il sistema degli ammortizzatori sociali. L’affermazione di schemi di ammortizzatori sociali universalistici significa, nel concreto: scollegare la titolarità dei diritti delle prestazioni del sistema di welfare sia dalle appartenenze lavorative, che oggi rischiano di rivelarsi sempre più instabili, sia dalle diverse posizione contributive, che divengono prive di senso ove si consideri l’estensione del lavoro parasubordinato; in un’ottica di solidarietà, significa finanziare le prestazioni tramite la fiscalità generale; significa strutturare un sistema di politiche attive del lavoro, da affiancare alla tradizionali prestazioni monetarie a titolo di sostegno al reddito o a copertura del rischio di disoccupazione, di modo da consentire una continua riqualificazione della forza lavoro e da incrementarne la possibilità di essere nuovamente occupati (quest’ultimo aspetto fa tutt’uno con la costruzione di un sistema di formazione continua). 





TESI 7 - L’ISTRUZIONE NEL DOPO QUARANTENNIO



•    Per costruire la cittadinanza del XXI secolo non si può prescindere da un ripensamento del sistema d’istruzione italiano. In particolare, la scuola italiana è ancora una scuola profondamente classista, sia perché l’impianto fondamentale gentiliano ha resistito ai successivi interventi sulla scuola, sia perché risulta profondamente inadeguata a rispondere ai mutamenti negli assetti economici e sociali intervenuti nell’ultimo quarantennio. Il riferimento fondamentale è allora ancora all’Art. 3, co. II, Cost. Se con questo articolo si riconosce l’esistenza di situazioni di diseguaglianza di fatto e se si assegna alle istituzioni il compito di rimuovere tali situazioni, allora il sistema d’istruzione diviene una delle principali forme concrete con cui le istituzioni provvedono allo sviluppo della persona e alla creazione del legame di cittadinanza che è al centro del rapporto fra individuo e società.

In particolare vanno assolutamente innalzati a 10 gli anni d’istruzione uguali per tutti. Non si può pensare, infatti, ad un’istruzione limitata alla formazione professionale, sia pure intesa in senso ampio come preparazione del lavoratore ad un certo ruolo lavorativo. L’istruzione deve andare oltre, e questo è il primo motivo per cui deve essere pubblica, poiché il mercato favorirebbe soprattutto la formazione professionale. L’istruzione ha poi la funzione perequativa di limitare il rischio che la differenziazione delle qualifiche lavorative, e la stratificazione sociale che ne deriva, tendano a cristallizzarsi. È dunque fondamentale un periodo iniziale il più lungo possibile (al limite coincidente con la scuola dell’obbligo) di istruzione generale, prima che le strade formative si separino a seconda degli indirizzi professionali prescelti. Non si possono disgiungere questi necessari provvedimenti da una urgente riforma dei contenuti dell’insegnamento volta ad un integrazione (e non ad una separazione) dei saperi, all’interdisciplinarità, a far maturare competenze più che a trasmettere conoscenze. Ma non si può prescindere neanche da un serio sistema di valutazione del sistema d’istruzione, degli istituti e della classe docente.

•    Bisogna, inoltre, rimettere al centro la ricerca e l’università italiana mediante il recupero della sua funzione pubblica ed istituzionale, intesa come principale fonte di sviluppo sociale, culturale ed economico del paese e di costruzione delle opportunità per la realizzazione del principio di equità e di mobilità sociale. Non siamo ancora arrivati cioè a costruire l’università di massa, al tempo stesso guida e servizio del proprio territorio e laboratorio funzionale ad un modello di sviluppo incentrato sull’innovazione.

Le risposte date negli ultimi anni si collocano in totale controtendenza rispetto alla necessità di un aumento delle opportunità; infatti le risorse per il diritto allo studio sono diminuite in modo drammatico: il governo uscente ha previsto un taglio del 95% al fondo integrativo per il diritto allo studio, le cui risorse dal 2010 al 2013 passeranno da 150 milioni di euro a poco più di 10 milioni. Oggi l’Italia continua a gestire il sistema universitario seguendo logiche burocratiche che lo hanno svuotato di gran parte della propria autonomia e funzione. Il potere centrale, negli ultimi anni, ha avviato un processo di centralizzazione che ha ottenuto come unico risultato un conflitto perenne con il mondo accademico, senza peraltro riuscire a riformarlo ed a limitarne i vizi; l’università è stata governata male e le esigenze della formazione sono passate in secondo piano rispetto alle necessità di controllo della spesa. Il disegno di legge Gelmini rappresenta l’esasperazione di queste logiche burocratiche, senza puntare, piuttosto, a “forme evolute di autonomia”, che possano rendere effettivo un percorso di sviluppo dell’università e della ricerca pubblica in Italia da realizzarsi all’insegna del principio di “autonomia e responsabilità”.  Bisognerebbe, infatti, introdurre una seria valutazione, come uno dei criteri per l’assegnazione delle risorse, che dovrà riguardare tanto la ricerca scientifica quanto i servizi ed il sostegno agli studenti.

Una vera riforma dell’università deve puntare alla valorizzazione dei saperi acquisiti e deve consentire a ciascuno, al di là delle condizioni socio-economiche di partenza, di realizzarsi e di sprigionare le proprie energie: una riforma fondata sulla “libertà dal bisogno”, in cui i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, possano raggiungere i massimi obiettivi e realizzarsi nel mondo del lavoro mediante l’opportunità di svolgere un lavoro qualificato. La politica deve farsi carico di un’inversione di tendenza, promuovendo delle politiche pubbliche che, a partire da un adeguato investimento finanziario e senza intaccare l’autonomia e strangolare l’università italiana, riescano ad incentivare l’università ad investire nel welfare studentesco, sulla qualità dell’offerta formativa e sulla valorizzazione delle menti migliori, assicurando così un ricambio generazionale in grado di sostenere il carico di responsabilità della costruzione di un futuro migliore per il nostro paese. 





TESI 8 – BATTAGLIE DEL NOSTRO TEMPO

Il buon diritto è tale se ammette l’accettazione delle diversità come fondamento dell’uguaglianza. L’Italia, nel corso degli ultimi anni, mossa dal conservatorismo e dalla violenza ideologica delle destre, sembra aver smarrito la strada verso una politica inclusiva e integrante. In un’Europa che ha compiuto enormi passi avanti rispetto alle conquiste e alle libertà dei diritti civili dei cittadini LGBT, persino negli Stati guidati da governi popolari, risulta imbarazzante l’anomalia dell’Italia, l’unico Paese tra i fondatori della UE a non possedere misure e leggi dedicate i cittadini omosessuali e transessuali. Nello scorso luglio, il Parlamento italiano ha nuovamente respinto una legge contro l’omofobia, accogliendo pregiudiziali di costituzionalità, nonostante il testo fosse pienamente in linea con le indicazioni fornite dalla risoluzione sull’omofobia del Parlamento Europeo del 18 Gennaio 2006.

Noi, Giovani Democratici, siamo convinti che, al fine di superare ogni discriminazione e violenza legata all’identità di sessuale e di genere, sia opportuno spingere il Parlamento all’approvazione di una legge che estenda la Legge Mancino anche all’orientamento sessuale. Salvaguardare omosessuali e transessuali da violenze verbali e fisiche non è necessario per costruire una società è realmente aperta alle differenze, in grado di riconoscere uguali diritti e doveri a tutti i suoi cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

La sentenza 138/10 della Corte Costituzionale rappresenta un momento dirompente per il diritto del nostro Paese: si riconosce l’unione tra due persone dello stesso sesso come una delle formazioni sociali garantite dall’articolo 2 della Costituzione Italiana, dotata del diritto fondamentale di ottenere riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri, arrivando addirittura a sostenere, in ipotesi particolari, la necessità di un trattamento omogeneo tra coppie coniugali e coppie omosessuali, rinviando tuttavia alle Camere il compito di rimediare alle carenze legislative.

Noi, eredi del lavoro di discussione e sintesi svolto dall’Ulivo nel 2006 in merito a PACS e DICO, siamo convinti che il compito dell’organizzazione dei Giovani Democratici sia di farsi portatrice, nel Partito Democratico e nel Paese, di una proposta che disciplini i diritti e i doveri delle coppie omosessuali, sul modello delle Civil Partnership britanniche. Restituire dignità all’Italia, oltre le macerie dei diciassette anni di berlusconismo, è imprescindibile da un impegno politico e culturale volto alla concessione di pari diritti a tutti i cittadini, indipendentemente da ogni condizione personale: non cogliere l’importanza della sfida vuol dire condannare l’Italia a un’ insensata condizione di minorità democratica.





TESI 9 - IL LAZIO ALLA PROVA DELLA CRISI



Il centrosinistra e il PD nel Lazio vengono da tre anni di sconfitte a livello amministrativo. Questo dato, inequivocabile, non è affatto marginale per il PD di questa Regione, perché per anni abbiamo governato il Lazio e quasi tutte le sue province. Nella Capitale abbiamo chiuso solo tre anni fa un ciclo importante di governo che ha cambiato nel profondo Roma, governavamo la Provincia di Viterbo, di Rieti, di Frosinone e di Roma. Insomma, il centrosinistra non ha mai svolto un ruolo di secondo piano in questa Regione, e nella fase più accesa del berlusconismo è stata protagonista indiscussa delle vicende politiche regionali. Sebbene l’ultima tornata elettorale sembra essersi risolta, nel complesso, a favore della nostra parte politica, dai risultati delle elezioni amministrative 2011 nel Lazio non emergono evidenze tali da consentire di estrapolare per il futuro tendenze univoche in un senso piuttosto che in un altro.

A differenza di quanto sembra emergere nel resto d’Italia, cioè con riferimento alla situazione del Lazio e nei limiti dell’analisi fin qui condotta, non ci sentiamo di poter affermare che “il vento è cambiato”, che si è esaurito il ciclo della destra sotto la spinta fenomenale di una ritrovata voglia di partecipazione popolare. E non siamo in grado di affermare ciò non solo in forza degli aspetti contraddittori e deteriori del risultato elettorale, cioè la perdita netta di voti subita dal PD a favore delle civiche, le divisioni e le conflittualità del nostro partito, la bassa consistenza elettorale dei partiti minori del centrosinistra, ma anche perché siamo persuasi che il mutamento in politica non avvenga da solo, in forza di qualche misteriosa congiunzione astrale. Da quanto fin qui detto risulta evidente che il PD nel Lazio non può permettersi di sedersi sugli allori di un ciclo elettorale che ha premiato, nel complesso, il centrosinistra, ma deve lavorare, a partire dalle primarie che eleggeranno il nuovo segretario regionale, alla costruzione e alla strutturazione di un partito radicato e popolare, così come emerso dall’orientamento nazionale, che possa incanalare in una logica partecipativa quel potenziale disseminato nei mille rivoli del civismo, riacquistando quella centralità politica che gli spetta anche sul piano locale. Riaffermare la centralità del partito è un passaggio essenziale in questa direzione: solo una situazione in cui è il partito a dare l’indirizzo agli amministratori e non viceversa, favorisce la partecipazione.



L’altro grande impegno è la costruzione di una vera alternativa politica nel Lazio, in una prospettiva integrata tra i diversi livelli, dal comunale al nazionale, dove i temi sul tavolo del governo del territorio non sono altra cosa rispetto ai grandi temi sociali ed economici del nostro tempo: il singolo comune non può essere concepito come una monade isolata nel vuoto, ma è parte di un contesto più ampio, territoriale, regionale e nazionale. Il punto fermo dev'essere quello di iniziare a pensare al Lazio come ad un sistema fortemente interconnesso, non solamente rispetto ai problemi che Roma scarica sulle province e ad una dialettica fra centro e periferia su infrastrutture e servizi sociali, ma rispetto a come la capitale insieme ai territori che la circondano può trovare un sistema integrato di sviluppo, a partire dai rispettivi punti di forza e di debolezza. Il modello consolidato che vedeva il Lazio in Roma più le sue province, più o meno bistrattate a seconda dei bacini elettorali e dei feudi politici, inizia a non funzionare più.

Il Lazio ha una pluralità di problemi da osservare, sui quali c’è bisogno di costruire un progetto credibile: gli indotti industriali sono al collasso, il sistema di welfare smantellato dal centro destra ha acuito una crisi così ancor più percepibile, i cittadini sono allo stremo, le infiltrazioni della criminalità organizzata sono all’ordine del giorno. In questo ragionamento si legano anche le mutazioni della Provincia di Roma. E’ chiaro che, nonostante alcuni sforzi, quel territorio è mutato negli ultimi anni. Non a caso la sua densità demografica è aumentata vertiginosamente. Oramai, la periferia romana si è estesa fin a raggiungere quei territori. Allora dal punto di vista dei servizi, delle infrastrutture, dello sviluppo noi dobbiamo ripensare il Lazio consci che davanti ai nostri occhi vi è una realtà totalmente nuova.

La direzione di marcia deve essere quella di pensare ad un sistema-Lazio, ovvero ad un sistema che, pure nelle diversità che intercorrono fra ogni provincia, sappia integrarsi sul piano funzionale. Integrare Roma e le altre Provincie deve essere un obbiettivo che supera la dimensione strettamente solidaristica del problema, ovvero la annosa questione della fuoriuscita dalla capitale di ampie fasce sociali, con tutti i problemi annessi dovuti al pendolarismo e all'esigenza di servizi sociali, per acquisire una dimensione più complessiva. Le altre provincie devono poter sfruttare la caratteristica di metropoli europea che Roma ha acquisito nel corso degli anni, a partire dalla cultura e dal turismo, e Roma deve acquisire la consapevolezza che lo sviluppo delle provincie e la delocalizzazione di settori produttivi possono portare a un salto di qualità anche per il benessere della capitale. D'altra parte ogni grande metropoli mondiale dei paesi sviluppati ha costruito intorno a sé un tessuto che vive in simbiosi con le dinamiche del centro. È sufficiente considerare Londra, Parigi o Madrid. Nel Lazio questo è più difficile, perché le grandi città europee sono capitali da molti secoli con uno sviluppo urbano di vecchia data, mentre l'Italia ha solo 150 anni di vita, e Roma è una città che ha vissuto uno sviluppo più marcato solamente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per questo il tessuto laziale conserva nelle provincie una sua originalità e una sua autonomia rispetto a Roma, ma il rischio nel lungo periodo in assenza di processi d'integrazione è una crescente distanza fra Roma e il resto del Lazio. Le vicende sulla composizione della Giunta Polverini, con lo scontro di Frosinone e Latina con Roma, sono il segno di un'insofferenza strisciante che non aiuta certo lo sviluppo della Regione. Intanto la questione è come affrontare la crisi, cercando allo stesso modo di facilitare questi processi.

Il lavoro fatto in occasione della campagna elettorale delle Regionali 2010 è un ottimo punto di partenza, che, tema per tema, affronta molte di queste questioni, e si tratterà di riprenderlo e di continuare una mobilitazione contro la Polverini sulla base di quel programma. Lo stesso vale per la campagna sui consultori familiari e sulle battaglie per il diritto allo studio.



In questo quadro i Giovani Democratici hanno un ruolo non marginale, che devono vivere nella più completa autonomia dalla discussione delle aree politiche regionali. Abbiamo anche noi qualcosa da imparare da questo voto, ed è in primo luogo che i problemi del territorio non si risolvono pensando solamente al proprio orticello. La forza di una organizzazione giovanile si misura non solo dalla partecipazione di cui vive un circolo o dalle capacità dei suoi coordinatori di circolo o membri di esecutivo. Si misura anche e soprattutto da come sa fare squadra e sviluppare una solidarietà che si nutre non solamente di comuni valori e di una comune appartenenza, ma anche di problemi comuni ai territori, come delle diversità qualificanti. Si misura nella capacità di saper far sentire tutti parte di una stessa organizzazione regionale, per cui ogni singolo iscritto deve vivere i dibattiti e le iniziative dei GD del Lazio come le proprie.





TESI 10 – L’AZIONE POLITICA DEI GD



Se interpretiamo come ruolo storico la nostra funzione di organizzazione giovanile, e i ragionamenti proposti in queste tesi vanno esattamente nella direzione di aprire un confronto su quale sia il ruolo di una generazione politica, allora è chiaro che dobbiamo mettere in campo anzitutto una battaglia culturale e politica capace di far maturare nelle giovani generazione quella “coscienza”, visione più profonda di scopi e di fini, che non è solamente esperienza di rivendicazione di interessi contingenti o di amministrazione del quotidiano.

Il senso di un'organizzazione giovanile, che la distingue rispetto a un semplice dipartimento giovani del partito, in fondo è questo: non semplicemente una struttura, in cui l'iniziativa si costruisce rispetto a un'agenda imposta dal partito o dalla politica quotidiana e che vive come somma di singole esperienze, ma un corpo collettivo che si mobilita organicamente rispetto a un obbiettivo comune. Ogni iscritto, ogni dirigente, si deve sentire soggetto attivo e protagonista della sfida politica dei Giovani Democratici e deve vivere la propria militanza all’insegna dei principi e degli obbiettivi che l’organizzazione vuole rappresentare; dentro una discussione collettiva contribuisce a determinarne la linea politica e deve incarnarla poi nell’iniziativa politica nei GD, nel PD e nella società. Ognuno di noi si deve sentire responsabile rispetto al progetto politico dei Giovani Democratici, come spazio comune di rappresentanza politica di una generazione e come soggetto che vogliamo investire di un ruolo centrale nella vita politica italiana. I Giovani Democratici siamo noi.

    

I circoli sono il primo soggetto dei Giovani Democratici, e il luogo dove vivono le sue politiche. La piattaforma, le battaglie politiche, i principi, devono vivere dal livello nazionale fino al territorio, in un continuo interscambio di idee e progetti, nella consapevolezza però che i GD sono un'unica organizzazione, dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, e che questo carattere nazionale è il suo principale valore. I circoli hanno il compito primario di riportare le battaglie politiche nazionali dentro le diverse realtà territoriali, costruendo iniziative politiche che vadano nella giusta direzione, perché se non faremo vivere la riflessione sulla cittadinanza del XXI secolo a partire da ogni territorio non riusciremo mai a consolidarne la prospettiva politica. In questo è importante il ruolo di un livello nazionale che sia di continuo stimolo e supporto formativo, ma anche avere dei circoli ricettivi, presenti nel territorio in cui operano e partecipi della vita interna dei GD. Le nostre sezioni, inoltre, devono sempre più tornare ad essere un punto di riferimento, dove, in un momento di crisi sociale, poter fare un’aggregazione giovanile aperta anche a stimoli diversi, culturali, sociali, di volontariato, e dove poter offrire servizi di cui c’è necessità, che non vengono erogati sul mercato, se non magari a prezzi per molti inaccessibili, o ai quali il pubblico non provvede a sufficienza.



Ciò significa valorizzare l’esperienza della militanza, impiantandola su basi politiche più profonde, dandosi come obiettivo operativo immediato quello di aderire ad ogni piega della società. È in questo modo che noi portiamo dal cielo alla terra il “radicamento”, attraverso la militanza cosciente e una presenza nella società ad ogni livello.

Ciò significa in termini molto pratici anche tornare ai fondamentali della politica: i volantinaggi, i porta a porta, le feste in piazza, il contatto diretto e costante con i cittadini, la presenza nei luoghi di studio e di lavoro, sono, prese singolarmente, piccole cose, ma che nell’insieme danno la misura di un’organizzazione che ha il cuore pulsante della sua attività in una militanza che vuole intraprendere con la società un’interlocuzione su questioni più ampie della miseria quotidiana, sui nostri destini comuni, segnando il passo rispetto ad un partito ancora troppo spesso ripiegato su se stesso. Il radicamento politico può essere quindi il criterio metodologico con il quale misuriamo la nostra iniziativa; un’iniziativa potrà dirsi riuscita se sarà servita ad accrescere iI nostro radicamento, aiutandoci a penetrare in profondità nelle realtà territoriali, a diffondere un messaggio nei luoghi della nostra generazione, ad intrecciare rapporti politici con realtà attive dei nostri comuni, a creare partecipazione.



È in questo senso che assumono un ruolo rilevante le nostre associazioni studentesche ed universitarie.

 


TESI 11 - LA FEDERAZIONE DEGLI STUDENTI



Il nostro punto di partenza per definire un lavoro da fare nelle scuole deve essere la funzione della scuola in quanto palestra di democrazia, cioè luogo dove gli studenti diventano cittadini, dove si forma in nuce la coscienza politica di ognuno. E allora il nostro lavoro nelle scuole deve essere tarato proprio su questa funzione politica del luogo-scuola: non solo sensibilizzare, non solo agitare, non solo rivendicare, ma politicizzare, favorire la partecipazione degli studenti alla vita democratica del paese, forgiare la coscienza civile, politica e generazionale.

Di fronte ad un berlusconismo strisciante, di fronte all’identitarismo goliardico dei neofascisti, di fronte all’offensiva culturale leghista, di fronte all’indifferenza e alla cultura dell’opportunismo, il nostro compito nelle scuole sarà quelle di creare una mobilitazione culturale permanente, che sia il terreno fertile su cui possa crescere una generazione che sceglie la via dell’impegno.

È su queste basi che abbiamo impostato la nostra associazione studentesca, la Federazione degli Studenti, come associazione politica di sinistra degli studenti. Proprio per questa sua natura, essa non rivolgersi solo agli studenti che hanno già fatto una scelta di campo, ma vuole politicizzarne di nuovi. Allo stesso modo un partito politico come il nostro non parla solo alla platea dei suoi elettori, ma parla al paese tutto, perché il suo obiettivo è creare consenso crescente. Ma nel parlare al paese, il Partito Democratico non rinuncia alla sua identità. Allo stesso modo i GD, tramite FdS, possono rivolgersi a tutti gli studenti, senza per questo rinunciare alla loro identità. Ma, anzi, facendone un punto di forza. La Federazione degli Studenti vuole essere, quindi, lo strumento con cui lavoriamo quotidianamente nelle scuole, con cui aderiamo ad una piega rilevante della nostra società.

Un soggetto che recupera la dimensione di associazione di istituto, senza per questo rinunciare ad un deciso profilo politico di carattere nazionale. Un soggetto che non è un think-tank esistente solo al livello “dirigenziale” o una struttura ipertrofica e burocratizzata, ma che, al contrario, fa della rappresentanza studentesca uno dei momenti più importanti della sua attività, non per fare il risiko sulle postazioni, giocando a contarsi, ma perché gli studenti devono sentirsi parte attiva del funzionamento del sistema scuola, tanto più in quella scuola dell’autonomia che ha sempre avuto in mente il centrosinistra.





TESI 12 - LA RETE UNIVERSITARIA NAZIONALE



L’ università è uno dei luoghi privilegiati dell’aggregazione giovanile e fucina nella quale si forgia il futuro delle generazioni più giovani ed una coscienza politica e sociale. L’agire politico nei luoghi del sapere è un’opportunità di crescita collettiva che ha una funzione importante, sia dal punto di vista interno all’organizzazione giovanile sia dal punto di vista del rapporto tra politica e società. Affrontare le politiche universitarie, andando oltre la logica sindacale della pur giusta difesa dei diritti degli studenti, consente di costruire un’idea di società e di conoscenza più generale e sistemica. Per di più, farlo in forma organizzata consente di realizzare un’azione condivisa, incisiva ed efficace, che permetta ai Giovani Democratici di portare i propri contenuti in uno dei principali luoghi della nostra generazione.

La costituzione della Rete universitaria nazionale è stata una scelta significativa a livello nazionale dei Giovani Democratici, perché mette in rete in un unico contenitore le differenti realtà studentesche che fanno riferimento alla nostra organizzazione. È un soggetto in grado di raccogliere le istanze studentesche attraverso il radicamento nelle singole realtà universitarie e la rappresentanza studentesca. Da queste istanze, può fare elaborazione politica e mettere a sistema le varie esperienze. Riportare da un piano particolare a uno più generale le politiche universitarie, in una chiave di confronto e dialogo con le istituzioni, è un approccio completo, che contribuisce a fare dei Giovani Democratici un soggetto attivo di cambiamento e di crescita a partire dai luoghi della formazione. Rappresenta una sfida importante che ha contribuito a mettere in relazione sempre più stretta la nostra organizzazione con l’universo studentesco e con i movimenti, con cui in questi anni si è riusciti a costruire alcuni percorsi condivisi.

La frammentazione e la disomogeneità di azione delle associazioni universitarie vicine ai GD, negli anni passati, è stato uno degli aspetti deficitari della nostra organizzazione; la RUN, mettendo in rete i soggetti  già presenti negli atenei italiani, e creandone di nuovi, ha contribuito a generare le giuste sinergie e a garantire coerenza e continuità all’azione.

La conoscenza è uno dei pilastri fondamentali dell’avanzamento sociale, culturale ed economico, e  l’università pubblica è il luogo di costruzione delle opportunità; dotarci degli strumenti necessari per  realizzare la nostra missione nei luoghi del sapere costituisce un mezzo per realizzare una società più giusta ed un nuovo modello di sviluppo fondato sulla conoscenza.

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