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  • 18/03/2011 Brindisi con il Presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti

Finocchiaro: favorire il protagonismo delle donne, garantire pari opportunità

PRIMO CONGRESSO NAZIONALE - TESI CONGRESSUALI

PARTE I – UN MONDO AL CONTRARIO 

Tesi 1 
Il nostro sguardo su un mondo diverso, all’alba di un nuovo decennio. 

Siamo all’alba di un nuovo decennio e tutto intorno a noi appare profondamente cambiato. A dieci anni esatti dalle mobilitazioni per il G8 di Genova abbiamo scoperto che un altro mondo non solo è possibile ma è successo. Tuttavia, quello che abbiamo trovato non è il mondo che in tanti avevamo sognato o sperato. 
Nel 2001 le strade di Genova si sono trasformate in fiumi di manifestanti, composti da migliaia di giovani italiani uniti nel chiedere ai grandi della terra impegni concreti per la cancellazione del debito dei paesi più poveri, per una più equa distribuzione della ricchezza, per contrastare l’inquinamento e per la salvaguardia delle risorse naturali. 
Nel 2011 un violento nubifragio si è abbattuto sulla Liguria, ferendo le cinque terre e trasformando le strade di Genova in fiumi d'acqua. Ora siamo noi, che riscontriamo in prima persona sul nostro territorio le conseguenze drammatiche dei cambiamenti climatici in atto, incapaci di sviluppare serie politiche in grado di contrastarli pur conoscendo benissimo i rischi a cui stiamo andando incontro. 
Oggi, è il presente di tutti i giovani italiani ad essere messo in discussione, il futuro stesso del nostro Paese ad essere appeso a un filo. Siamo noi che invochiamo salvataggi di emergenza e discutiamo di prestiti di ultima istanza. 
Nel 2001 ci si divideva fra global, no global e neo global. Ma la globalizzazione è stata indifferente a queste divisioni e ha proseguito per la sua strada. Travolgendoci tutti, senza avere cura delle nostre indicazioni e preoccupazioni. 
Una globalizzazione che ci ha stupito. Non è stato strumento di diffusione di diritti e democrazia nel mondo e nemmeno il mezzo con il quale i paesi cosiddetti “avanzati” hanno consolidato le proprie posizioni di forza nello scacchiere geopolitico. Anzi, nel mondo globalizzato, troviamo le economie dei paesi forti sull’orlo del fallimento, viviamo la crisi dell’Europa e dell’euro, la nascita dei Piigs e dei Brics, l’aumento della sperequazione interna di reddito e di condizioni di vita, registriamo un tasso di disoccupazione giovanile senza precedenti storici su entrambe le sponde del Mediterraneo e negli Stati Uniti, e assistiamo alle migrazioni delle giovani generazioni da sud verso nord, oltre i confini degli stati nazionali.
Dopo il trentennio dorato del secondo dopoguerra, l'onda lunga della rivoluzione partita dagli Stati Uniti alla fine dei '70 sembra ritirarsi, lasciandoci un mondo con una geografia diversa, in cui il grande Occidente industriale inizia a farsi piccolo. La crisi economica scoppiata nel 2007 è sì partita dalla finanza, ma è arrivata dritta nella nostra vita quotidiana, travolgendo sogni ed aspirazioni di milioni di cittadini. 
La globalizzazione ha rovesciato la piramide e oggi il panorama che abbiamo davanti è quello del declino e della paura, cosa che non avviene nei nuovi paesi emergenti, entrati da poco nell’arena economica mondiale, dove il colonizzato aspira a conquistare l’ex-colonizzatore. 
Alziamo gli occhi sul mondo: capitali angolani investiti in ex-aziende pubbliche portoghesi, mentre la Jaguar, gloriosa casa automobilistica inglese, è stata acquisita dalla Tata, marchio indiano conosciuto fino a pochi anni fa solamente per la produzione di automobili a basso costo. Inoltre, Cinesi e Indiani posseggono gran parte dei debiti pubblici dei paesi occidentali, e ciò senza che sia avvenuto nessun cataclisma né guerre mondiali, fatta eccezione per i conflitti legati al controllo delle risorse naturali. 
L’ascesa dei paesi emergenti e la contemporanea crisi dell’Europa politica sono elementi che dimostrano come le trasformazioni in atto siano più profonde di quanto possiamo immaginare. E, purtroppo, non sarà qualche designer che elabora gadget tecnologici a salvarci. 
La crisi dei Paesi europei è anche crisi del progetto europeo. Altiero Spinelli, Jean Monnet, Robert Schuman, De Gasperi, immaginavano l’Europa come nazione europea, magari come federazione degli Stati Uniti d’Europa, politicamente attraversata da grandi partiti europei. Tutto sarebbe iniziato dall’integrazione monetaria e fiscale per poi trasformarsi in una vera unificazione politica. Ad oggi, invece, si affaccia all’orizzonte il rischio di non avere più nemmeno una moneta comune europea. E Per rimettere in pista il progetto europeo mancano sia la volontà politica sia gli strumenti: il vuoto della politica viene riempito dai prestiti del Fondo monetario internazionale, in attesa di un debito pubblico europeo che metta sullo stesso piano la Grecia e la Germania

Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in una 
Democrazia, vero Buddy? È il libero mercato” 
Gordon Gekko, Wall Street 


Tesi 2 
Capitalismo contro capitalismo, dalla speranza alla paura

I sostenitori della globalizzazione ci avevano promesso che l’economia creativa, in un processo improbabile di crescita infinita, avrebbe permesso un maggiore equilibrio sociale solo grazie al riconoscimento dei talenti dei singoli lavoratori. Ma qualcosa non ha funzionato come ci avevano raccontato. Oggi i dipendenti della Apple, l’azienda più capitalizzata a livello globale, sono circa 60.000 in tutto il mondo, mentre il più grande datore di lavoro al mondo risulta essere, esattamente come dieci anni fa, il dipartimento della difesa degli USA che ogni mese paga più di 3.200.000 di stipendi, circa l’1% della popolazione statunitense. 
La rivoluzione annunciata non è avvenuta. E noi assistiamo ora alla crisi del capitalismo finanziario, dopo averne conosciuto i trionfi. Abbiamo visto crescita economica ed allargamento della base democratica iniziare a scorrere su percorsi paralleli, dopo decenni in cui hanno camminato insieme. Dopo il capitalismo della speranza è arrivato quello della paura. Le misure vengono imposte a costo di duri sacrifici, senza nessuna narrazione positiva. 
Eravamo abituati a un capitalismo in grado di “pensare positivo” alimentando speranze condivise, dal sogno americano al miracolo italiano. L’economia di mercato è stata capace di produrre diseguaglianze profonde ma il controllo democratico e la centralità del lavoro hanno garantito a lungo una redistribuzione dei profitti e opportunità crescenti per le generazioni successive. Il capitalismo del secondo Dopoguerra ha trascinato la crescita economica, l'ampliamento della democrazia e la fiducia verso il futuro. 
Oggi, invece, i governi legittimano le proprie decisioni con la paura del capitalismo finanziario: crisi sempre più gravi, debiti pubblici a rischio, fallimenti di aziende, banche e stati. L’economia sociale di mercato che abbiamo conosciuto ha portato la democrazia liberale e le sue istituzioni. Viceversa, il capitalismo finanziario diffida della sovranità popolare, come si è visto nel caso del referendum greco sulle misure di austerity che si sarebbe dovuto tenere nel novembre del 2011. 
Sembrano lontani i tempi delle misure economiche legittimate dal consenso sociale, capaci di penetrare nel corpo vivo delle popolazioni e di trovarvi consenso diffuso. Le istituzioni simbolo di questo capitalismo finanziario, banche e sistema della finanza, sono diventate il bersaglio della rabbia e del rancore di una larga parte della popolazione. 
La separazione tra il potere economico e il controllo democratico è ai massimi livelli, perfino il linguaggio mainstream produce narrazione negativa. Le riforme sono chiamate all'impopolarità, pena non produrre risultati, e nulla rimane della speranza e dell’ansia di futuro del capitalismo che fu. Prima per vincere era necessario convincere. Oggi basta l’algida supremazia di un'economia che si è fatta pura tecnica, numeri a cui ci si affida come gli ubriachi si attaccano ai lampioni, per legittimare le politiche pubbliche: le restrizioni sono date, anche se scivolano sulle sofferenze delle persone senza che nulla possa fermarle. 
Ma così facendo, senza costruire una reale opzione alternativa che leghi crescita e democrazia, il capitalismo rischia di diventare una ideologia nichilista. Solo due anni fa nessuno avrebbe mai creduto che fosse possibile manifestare davanti a Wall Street. E accanto agli indignati americani è scesa in piazza una generazione che prende la parola, da Londra al Cairo, da Roma a Madrid fino a Santiago del Cile. 
Ciò è accaduto perché il capitalismo ha mutato volto. Finché la mediazione tra capitale e lavoro avveniva all’interno dei confini nazionali e all’interno delle fabbriche, il profitto veniva redistribuito e con esso il sistema di garanzie che ha dato vita al welfare. Il capitalismo finanziario, invece, ci ha consegnato un sistema economico in cui è assente qualsiasi meccanismo di redistribuzione: quando il profitto è dovuto al lavoro, quest’ultimo è fornito da masse di lavoratori sottopagati nei nuovi paesi emergenti, quando, invece, esso è creato grazie ai meccanismi della finanza creativa e della rendita fondiaria, sfugge a qualsiasi tentativo di mediazione poiché la controparte non c'è. Ad inquietare gli animi, all’alba di questo nuovo decennio, non è quindi l’economia di mercato, ma l'ultima incarnazione dello spirito del capitalismo che ha preso il volto del capitalismo finanziario sotto la poderosa spinta di Ronald Reagan negli USA e di Margaret Thatcher nel Regno Unito. Salvare il capitalismo da se stesso è oggi il nostro problema. 


"Come tutti gli altri sei nato in catene, sei nato in una prigione 
 che non ha sbarre, che non ha mura, che non ha odore, 
 una prigione per la tua mente.” 
Morpheus, Matrix 



Tesi 3 
Insieme oltre l’individualismo, per il bene comune

La società in ogni suo settore sta assistendo a una trasformazione dei suoi processi costitutivi: da sistemi gerarchici a sistemi di rete. Il mondo che viviamo, con le relazioni politiche, economiche e sociali che lo attraversano e definiscono, non può più essere ridotto in nessuna delle sue parti. Ogni aspetto per essere compreso necessita di una visione globale, così come le dinamiche che determinano quel globale scaturiscono da una sempre maggiore e complessa serie di eventi interdipendenti. 
I luoghi non sono più esclusivamente spazio fisico ma nascono, crescono e muoiono, in base alle relazioni sociali che li attraversano. I flussi di persone, merci, informazioni evolvono e si modificano con il progresso della tecnologia e delle forme di produzione e di distribuzione del lavoro, delle risorse, della conoscenza. Lo stesso concetto di tempo si sviluppa, definendo se stesso in nuovo rapporto tra la celerità, l’immediatezza delle informazioni e la possibilità di apprenderle, di sapere e poter decidere. 
Cambia la società, cambiano i luoghi, ma i soggetti restano sempre gli stessi: le persone. Persone che si moltiplicano in popolo. Un popolo che in democrazia può orientare i processi, attraverso il voto libero e segreto, e che oggi, invece, sembra rassegnato a subirli. Il risultato della rivoluzione sociale e culturale di questi ultimi 30 anni è stato la costruzione di un immaginario della libertà fondato solo sulla capacità di appropriazione personale. La libertà individuale, da obiettivo per l’affermazione di sé dentro una cornice di solidarietà, inizia a essere pensata come imposizione dei propri egoismi contro qualsiasi relazione condivisa. Allo stesso modo, le istituzioni pubbliche, da strumento attraverso il quale dare maggiori opportunità e contrastare le diseguaglianze, divengono il nemico di chi cerca di rendere permanente la vittoria dei propri interessi particolari. 
Il capitalismo attuale, infatti, usa in maniera spregiudicata un potere politico forte allo scopo di costruire un nuovo modello di governo che vuole ridurre al minimo indispensabile i vincoli condivisi di carattere collettivo a partire dallo Stato, concentrandosi invece sull’aumento abnorme della sfera di azione individuale. Da qui lo strano mix che ha governato in questi anni il nostro sistema economico: non più il government, ma la governance. E così si è affievolita sia la forza della decisione politica sia l'autonomia del sociale. 
Nonostante tutto questo, esistono nella nostra società e nella nostra democrazia anticorpi positivi che sono già entrati in azione con successo nella nostra vita democratica. Penso alla splendida campagna referendaria del giugno 2011, quando 27 milioni di italiani si sono recati alle urne per l’acqua pubblica, per l’energia pulita e per una giustizia uguale per tutti. Tuttavia, l’individualismo esasperato di questi anni ha dato vita a una società più arida, più povera, più infelice. 
In molti acquisiscono ogni giorno consapevolezza dei limiti di questo sistema, decidono di recuperare il senso di un impegno comune per una prospettiva condivisa. Il concetto di bene comune viene esteso sempre più frequentemente a un crescente numero di concetti. Ci stiamo risvegliando da un lungo letargo individualista. E siamo proprio noi, i più giovani, ad avvertire per primi e di più il bisogno di un inversione di rotta radicale. 
Ma non siamo soli. Il 2011 è stato un anno importante, molte energie si sono riattivate. Energie sane, positive. I comitati delle donne, del precariato e della cultura, il mondo dell’antimafia e del volontariato civile, un movimento studentesco sempre più radicato, maturo e consapevole. In migliaia abbiamo manifestato per la difesa della costituzione, intorno a noi si è sviluppata una sempre crescente sensibilità ecologica, il mondo cattolico ha deciso di impegnarsi pubblicamente con forza, a tutti i livelli, per dare centralità al tema della lotta alle diseguaglianze e alla povertà e alla salvaguardia dell'ambiente attraverso una critica serrata all’attuale modello di sviluppo.


«Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva
 condizione di armonia, è piuttosto processo di cambiamento tale
 per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti,
 l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti
 istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali »
 Definizione contenuta nel rapporto Burtland (1987) 



Tesi 4 
La sfida dell’Europa e della nostra generazione: riconquistare un futuro sostenibile

Abbiamo ben chiaro qual è l’orizzonte entro il quale vogliamo lanciare la nostra sfida. Rivendichiamo con orgoglio il carattere nazionale della nostra organizzazione, che ne rappresenta il primo e fondamentale punto di forza come soggetto politico. Però avvertiamo tutti i limiti della “vecchia Europa”, del suo modello intergovernativo e delle sue peculiarità nazionalistiche. Sta a noi, alla nostra generazione, rompere gli steccati nazionali che ci circondano e dare forza a un modello di sviluppo europeo realmente comunitario, solidale, nuovo. 
Il mondo è cambiato, ma per fortuna anche noi siamo cambiati. E dobbiamo essere pronti a lanciare una nuova sfida recuperando un sogno che sembriamo avere smarrito: gli stati uniti d’Europa. La nostra generazione ha un compito storico, restituire al mondo un futuro sostenibile. Perché l’assenza di una prospettiva condiziona il presente ancor prima del futuro, quello a cui stiamo assistendo è la prova della necessità di un’inversione di rotta. 
Solo la politica ci può portare fuori dal pantano dove l’assenza di politica ci ha relegato, solo un Presidente degli Stati Uniti d’Europa democraticamente eletto può avere la forza di ridisegnare il quadro e di agire in un contesto globale sui processi economici, culturali, sociali ed ambientali in atto. Serve la forza politica per garantire che le scelte che assumeremo in questi anni difficili siano ispirati al criterio della sostenibilità, nel rispetto di noi stessi e di quelli che verranno. Le scelte economiche, energetiche, sociali, ambientali. Scelte che dovranno essere assunte in contesti globali, da soggetti in grado di condizionare processi. Soggetti che devono essere democratici, eletti direttamente dai cittadini. 
La crisi economica in corso rivela il bisogno di nuovi meccanismi di governo comunitario. Le politiche di austerità rischiano non di risolvere i nostri problemi, ma di aggravarli. E' stato miope pensare di trattare la Grecia come un malato che rifiuta insolentemente le cure: ad essere sbagliata non è la cura, bensì la diagnosi, con la conseguenza che il virus continua ad espandersi e non siamo ancora in grado di fermarlo. 
L’esperimento dell’Euro, la prova di un’unica moneta che lasciasse ampia disponibilità di decisione fiscale agli stati in cambio della delega alla gestione della politica monetaria e di bilancio, manifesta tutti i propri limiti. iL. principio dell’indipendenza della Banca centrale europea, l’idea che essa non debba preoccuparsi di occupazione e crescita, l’ossessione per il pareggio di bilancio ora imposto nelle costituzioni dei nostri paesi e la scarsa forza del ruolo del Parlamento europeo al cospetto di quello dei singoli governi, davanti alla crisi, rassegnano tutta l’insufficienza delle regole di cui si è dotata l'Ue. 
La crisi globale ha portato alla crescita dei consensi delle formazioni reazionarie, conservatrici ed antieuropeiste. Alla crisi si può rispondere facendo leva sulle paure, come quella della disoccupazione, degli immigrati, degli altri stati, oppure con le riforme democratiche. L’unificazione politica europea deve accelerare e non frenare il suo corso, superando, con la forza della politica, le enormi resistenze nazionali. 
Abbiamo bisogno di decisi passi in avanti nella governance europea. Innanzitutto, occorre modificare lo statuto della BCE, inserendo tra i suoi compiti il sostegno all’occupazione e alla crescita. Servono politiche di bilancio comunitarie e occorre convertire i bilanci nazionali in bilanci federali, in modo da dotare l’Europa di una politica monetaria e fiscale comune. E' inutile sottoscrivere i debiti dei paesi senza potere stampare moneta, non serve ristrutturare le finanze pubbliche senza avere un piano di investimenti per rilanciare la crescita. 
Vogliamo batterci per la tassazione delle transazioni finanziarie come uno strumento di sostegno allo sviluppo interno e alle giovani generazioni europee. Soltanto i riformisti europei potranno cambiare il paradigma economico che ci ha governato fin ora, soltanto con una spinta coriacea delle forze progressiste e socialiste europee sarà possibile realizzare una nuova Europa come una forza di civiltà del futuro e non come una decadente appendice del passato. 
Serve un’Europa forte e unita, Consapevole della portata della sfida globale che siamo chiamati ad affrontare. Pochi giorni fa, quasi al termine dei lavori dell’ultima conferenza sul Clima di Durban, il capodelegazione per l'UE, il commissario europeo Connie Hedegaard, invocava chiarezza circa gli impegni che stavano per essere assunti in quella sede. Il capodelegazione cinese, di tutto punto, le ha risposto: “Chi vi da il diritto di dirci che cosa dobbiamo fare?”. Alla fine del negoziato, grazie al deciso impegno della delegazione europea e nonostante le resistenze dei paesi emergenti, si è giunti a una mediazione che ha offerto comunque un risultato significativo: per la prima volta, sono state poste le premesse per un accordo globale sulla riduzione delle emissioni, accordo che dovrà essere approvato entro il 2015 e reso operativo entro il 2020. 
Vorremmo rispondere noi al capodelegazione cinese. Certo, nessuno ci da il diritto di dirgli che cosa dobbiamo fare, ma noi europei abbiamo il dovere di far sentire la nostra voce in questo difficile momento, in tutte le sedi opportune. Crediamo che l’Europa, con la sua storia millenaria, debba svolgere un ruolo decisivo nella costruzione del mondo del nuovo millennio. E siamo convinti che per farlo, essa debba dotarsi di una struttura politica adeguata, al passo coi tempi che stiamo vivendo e con le problematiche che dovremo affrontare. Per questo serve urgentemente un’unica guida politica europea, eletta direttamente da tutti i cittadini dell’Unione. 
Parlare di Presidente degli Stati Uniti d’Europa oggi può sembrare a qualcuno un’aspirazione irrealizzabile. Come non tutti i nostri nonni avrebbero reputato possibile che un giorno sarebbe esistita l’Europa di benessere e pace in cui noi siamo cresciuti. I giovani aspirano all’impossibile e generazione dopo generazione lo realizzano. Noi non vogliamo assolutamente sottrarci a questo compito. 



 PARTE II – UN PROGETTO PER L'ITALIA


Tesi 5 
La crisi della seconda repubblica 

La verticalizzazione del potere in economia ha influenzato anche una parallela verticalizzazione del potere nella società.
L’immaginario della libertà assoluta ha infatti messo in discussione non solamente la statualità come luogo condiviso di mediazioni e regolamentazione di diversi interessi economici, ma anche come luogo di mediazione politica e di riconoscimento di ognuno in una identità condivisa. 
In questi ultimi anni l’antipolitica è stato questo: da una parte l’attacco alle istituzioni collettive della decisione dall’altro l’incapacità di leggere i processi sociali secondo l’ottica della differenza di potere tra interessi forti e interessi deboli: abbiamo pensato di avere aumentato il nostro potere, mentre invece il potere si andava concentrando nelle mani di pochi.
L’ultimo trentennio ha quindi influenzato il nostro sistema economico ma anche quello sociale costruendo una società che nega la politica come luogo della costruzione di un’alternativa possibile. 
La politicizzazione della società attuale è passata solamente sul piano delle biografie dei leader. In questo il berlusconismo è stata una storia esemplare di conflittualità mediata dalla biografia del singolo leader che ha sostituito le identità collettive dei partiti politici. 
La riduzione della politica a semplice amministrazione è stata il mantra degli ultimi anni. Peccato che quanto teorizzato come uscito per sempre dalla porta della storia rientrava dalla finestra della politica. Siamo cresciuti in un tempo in cui le grandi narrazioni venivano dichiarate morte e sepolte. 
Ma cosa è stato il berlusconismo se non una grande narrazione rivolta all'Italia degli ultimi 30 anni? Spiegare tutto questo con la vulgata della manipolazione populista è nascondersi dietro un dito. 
Noi pensiamo che sia ora invece di rimettere al centro del campo politico una nostra narrazione collettiva, che costruisca la democrazia come mezzo e come fine. Per fare questo non possiamo che costruire soggetti collettivi, i partiti politici, che siano organizzatori di democrazia reale: anche Obama, nel paese nel quale la personalizzazione della politica ha raggiunto il suo apice, ha dovuto costruire sistemi di democratizzazione dei processi politici costruendo una grande rete di community organizing, quasi un partito all’europea, e rendendo questa struttura permanente e non solo al servizio della sua campagna elettorale. Per uscire dal berlusconismo servirà una grande alleanza tra partiti e organizzazioni sociali, il recupero della mediazione parlamentare, l'incremento degli strumenti di trasparenza e partecipazione all'interno di partiti ormai ridotti a macchine elettorali. 
Basterebbe riscoprire l’attualità e la forza della nostra carta costituzionale, ripartendo dall’articolo 3 e dell’articolo 49, che letti insieme danno un significato nuovo alla parola democrazia che non è solo forma o regola ma è sostanza e tensione continua. La costituzione repubblicana rimuove gli ostacoli che ostacolano l’uguaglianza dei cittadini, riconosce la centralità del lavoro e individua i partiti come strumenti per raggiungere questi obiettivi. Questione democratica e questione sociale stanno insieme, ma rischiano il cortocircuito perché la democrazia non è mai procedura ma è forma e sostanza. La debolezza della democrazia e dei processi di partecipazione democratica ha le stesse radici della debolezza del lavoro e dell’affermazione della dignità della persona. Lavoro e persona non possono essere messi in contrapposizione: in fondo sta qui la sfida di una nuova politica progressista. Costruire identità a partire dalla politica, considerare il lavoro come dimensione non unica ma fondamentale della costruzione della cittadinanza. Fare società con la politica è in fondo questo, è riempire quel vuoto lasciato dall’operaio massa con la persona umana e riconoscerla come parte di una comunità. 
Vogliamo costruire la nostra identità politica dentro un circuito sociale, passando a ridisegnare una struttura di corpi e poteri intermedi non come devoluzione di poteri dall’alto verso il basso, ma come raccordo tra interessi parziali e istituzioni centrali, in altre parole tra lavoro e democrazia. 
Bisogna esplorare nuovi lidi, costruire nuove alleanze sociali, rappresentare nuovi blocchi sociali. In questo il ruolo di un’organizzazione giovanile è fondamentale perché può aiutare il Partito Democratico a costruire nuove alleanze come nel caso della costruzione della manifestazione nazionale dei precari “il nostro tempo è adesso” del 9 aprile del 2011. 


Tesi 6 
Ricostruire la res publica 

Parallelamente è necessaria una profonda riflessione come sono cambiati gli assetti istituzionali negli ultimi anni. Spesso abbiamo sentito dire che bisogna riallineare la costituzione formale con quella sostanziale. In molti insistono nel farlo a discapito delle istituzioni repubblicane mettendo all’angolo il parlamento ed investendo le istituzioni di governo di una legittimità che non gli viene richiesta dalla nostra carta costituzionale. 
Se le istituzioni monocratiche hanno acquisito una centralità senza pari nello spazio politico contemporaneo esse hanno d’altra parte spesso alterato i meccanismi di identificazione dei cittadini nelle istituzioni statali: in questo modo chi non si sente rappresentato in quel leader non si sente rappresentato neanche in quelle istituzioni. 
Noi crediamo che l’unico modo per mantenere forte il nesso tra rappresentanza democratica e decisione politica e allo stesso tempo permettere la costruzione di istituzioni condivise sia il rilancio del parlamento e dei partiti politici: il parlamento senza partiti significa solamente il trionfo del notabilato e del trasformismo, facilitato peraltro, dal rapido ed inesorabile declinare dell'etica pubblica nell'epoca della politica-spettacolo. 
Il trasformismo ha attraversato la politica italiana e una parte della società affascinata dagli strali dei moderni profeti della politica né di destra né di sinistra, dominando questo ultimo ventennio.
Per evitare svolte neoautoritarie è necessario ricostruire i soggetti collettivi della decisione, gli unici capaci di fare mediazione. Gli attacchi costanti ad ogni tipo di assemblea elettiva, dai consigli provinciali a quelli comunali, dal parlamento ai consigli municipali o di zona, non mirano a ristrutturare il nostro edificio istituzionale ma solamente a demolirlo. 
Anziché abolire le province, senza alcun significativo risparmio, per trasformarle in un ente di secondo livello, ci sembra più serio ed efficace intervenire sui costi degli enti che in questi anni si sono moltiplicati alimentando reti clientelari. Sarà necessario distinguere bene ciò che è costo della democrazia, che va sostenuta, da ciò che è spreco della politica.
Sappiamo bene, però, che questo non basterà a rafforzare le istituzioni democratiche. 
I tentativi di realizzare una grande riforma della politica in Italia si sono mossi solo su riforme elettorali ed ingegneria costituzionale. Ma questo non risolve la necessità di una grande riforma della politica che allarghi la base democratica della nostra nazione ed inveri il dettato costituzionale di una sovranità che appartiene al popolo. 
I modelli possono essere diversi ma i paletti che ci impone la nostra Costituzione sono pochi e stringenti: un parlamentarismo efficiente e centralità dei partiti politici. Tutto il resto, direbbe il vangelo, è del demonio. 
Per questa ragione sosteniamo che il nostro sistema istituzionale debba riallinearsi con i modelli continentali, garantendo l'applicazione dell'art. 49 della Costituzione all'interno dei partiti, consentendo a ciascun partito di valutare in Parlamento quali alleanze costruire, prevedendo la sfiducia costruttiva nei confronti dell'esecutivo, abolendo il premio di maggioranza e le liste bloccate.













“…. La qualità del lavoro – nella sua accezione più vasta – fornita da un popolo,
 la capacità dei lavoratori e dei manager di apprendere, innovare,
 “risolvere problemi”, organizzare e decidere diventano sempre di più
 le risorse principali sulle quali può ancora influire
 l’azione consapevole delle collettività nazionali.”
 Bruno Trentin, “La città del lavoro” 

Tesi 7 
La società della conoscenza
L’idea della “Società della conoscenza” è stata tradizionalmente associata ad una domanda di maggiore investimento su scuola, università e ricerca. In realtà è stato il tentativo, fino ad oggi ampiamente mancato, di disegnare un modello di sviluppo attorno alle persone e alla loro intelligenza, al lavoro, all'uguaglianza. 
La società della conoscenza è l'utopia possibile ma tradita da un' Europa incapace di grandi politiche pubbliche perché stretta nella sua rigida cornice monetarista. Cambiare questa cornice è la condizione essenziale per realizzarla.
La società della conoscenza presuppone un'inversione totale del paradigma economico, che metta al centro l’innovazione tecnologica e l’intelligenza nel lavoro. 
In un mondo sempre più globale, in cui le lenti analitiche dell'economia classica sono insufficienti, la vera “ricchezza delle nazioni” diventa il lavoro e la sua capacità di esprimere intelligenza. La capacità di sfruttare le opportunità nella globalizzazione, di trovare nuovi mercati, di crescere deriva dalla capacità del lavoro di esercitare la propria intelligenza nel processo produttivo, dando traduzione a quello che Robert Reich chiamava “Il lavoro delle nazioni”, la prima variabile di indirizzo della crescita per un paese. 
I BRIC, Brasile Russia India e Cina, si affacciano sul mondo grazie ad una forza lavoro a costi bassissimi, ma anche come grandi investitori nel campo della ricerca e dell’innovazione tecnologica. O l’Europa si attrezza per sfidarli, o il modello sociale di cui è portatrice e la stessa civiltà europea saranno destinate al collasso. 
La finanziarizzazione dell’economia ha esaltato il ruolo della rendita a discapito del profitto: perde peso la classica “remunerazione del capitalista”, il motore che lo sprona a cominciare nuove attività, ad innovare la produzione, a ricercare nuovi prodotti e nuovi mercati e si alzano gli interessi richiesti dagli investitori per la sottoscrizione delle quote azionarie. Il compito degli imprenditori è sempre meno di investire per ampliare la loro impresa, ma sempre più garantire rendite agli azionisti; torna in gioco lo scontro tra la rendita ed il salario, visto come un costo di produzione all’interno dell’azienda e non come la remunerazione della forza lavoro nella società. 
La competizione internazionale si aggiunge a questi fattori. Il concetto di taylorismo e di fordismo, l’evoluzione del concetto di specializzazione produttiva e di metodo scientifico di organizzazione del lavoro sono state superate dalla realtà del mercato globale. La divisione delle competenze, messa in contatto con la realtà mondiale del lavoro, fa saltare i presupposti della catena di montaggio: in un mondo in cui le imprese delocalizzano interi reparti di processo produttivo in altri paesi, anche le categorie della produzione diventano mondiali, cambiano e si evolvono. Ogni paese si specializza nel segmento del processo produttivo che riesce a generare ad un costo più basso degli altri, determinando una costante pressione a ribasso delle retribuzioni. 


Tesi 8 
Il lavoro che può contare 

Le difficoltà dei partiti europei di centrosinistra e delle forze sindacali continentali ha coinciso con un grande riassetto economico in cui il lavoro figurava come una funzione marginale nella società, un costo necessario ma da ridurre. Una rimozione collettiva che ha fatto corrispondere al declino della figura dell'operaio fordista la sconfitta del lavoro e della produzione come motore di una società. Questo messaggio ha lentamente permeato anche il centrosinistra italiano che, per un verso, ha passivamente accettato la marginalizzazione del lavoro nella convinzione che ci potessero essere altre strade per lo sviluppo. Nel frattempo la sinistra radicale ha assunto una posa resistenziale, incapace di leggere le occasioni che la fine del taylorismo-fordismo poteva produrre. Entrambe le letture sono oggi sconfitte dai fatti e dalle proprie mistificazioni. 
A tutti è sfuggito che in un'economia della conoscenza il lavoro non è più la variabile di una produzione immaginata e decisa altrove, ma il fondamento stesso del processo produttivo e di innovazione. Superare il dibattito degli anni '90 è per questa ragione la condizione da cui non possiamo prescindere se non vogliamo trovarci in un deserto sociale deindustrializzato. 
Il lavoro come punto di partenza per rivedere i concetti di sviluppo, di consumo e di investimento: questa è la nostra sfida più difficile ed affascinante. Dietro le cifre, le statistiche i grafici c'è la vita concretissima di milioni di persone, a cui non si può parlare con il linguaggio dell'economicismo, ma con quello della conquista di nuovi spazi di dignità e di libertà. 
In Italia i numeri descrivono il forte aumento della disoccupazione giovanile, arrivata nel nostro paese a quasi il 30%, e un'inarrestabile “fuga dei cervelli” di migliaia di nostri coetanei in possesso di un titolo di studio che, rifiutati dal nostro paese, vengono accolti a braccia aperte all’estero. La dispersione scolastica si aggira stabilmente attorno al 20% . Ma la tragica novità dei nostri anni 2000 sono i Neet (Not in Education, Employment or Training), centinaia di migliaia di giovani, non solo in Italia ma in tutta Europa, la cui incertezza sul futuro deprime la voglia di sentirsi cittadini e parte attiva della società. 
Le cifre mettono in luce un problema che non riguarda solo i limiti del nostro sistema formativo, ma parlano delle ragioni profonde per le quali il nostro paese cresce poco ed in maniera diseguale.
La scelta di sostituire la svalutazione competitiva, via privilegiata per l'accesso ai mercati, con la precarizzazione del lavoro su cui scaricare i costi in eccesso, anziché privilegiare l'innovazione di prodotto e di processo, l'investimento sulle persone e le loro capacità, che è l'opposto della precarietà, è la spiegazione della bassa crescita italiana. 
Il concetto di innovazione della nostra classe imprenditoriale è limitato all'innalzamento dei livelli di produttività e all'abbassamento del costo del lavoro, ignorando la forza rivoluzionaria dell'innovazione dei processi produttivi, la trasformazione del ruolo dei lavoratori che essa comporta e la possibilità di introdurre nel mercato prodotti sempre più avanzati a costi decrescenti. E’ su questa strada che occorre intanto un nuovo patto sociale, in un mondo che ci ha superati. 
Dobbiamo porre con forza intanto il gigantesco problema delle retribuzioni, ferme per la nostra generazione ai livelli dei primi anni '90, in un periodo antecedente alla creazione dell'euro. Per migliaia di giovani questo significa la rinuncia alla vita fuori dalla casa dei propri genitori, la rinuncia alla possibilità di mettere al mondo figli e una prospettiva di pensioni basse. 
Con altrettanta forza dobbiamo affrontare il tema dei diritti: i nostri precari non conoscono welfare né contrattazione. E quelli che conoscevano questi strumenti si apprestano, rassegnati, a rinunciarvi. La vertenza FIAT, comunque i lavoratori abbiano votato e al netto delle strategie dei sindacati, è una sconfitta della possibilità di partecipazione dei lavoratori alle scelte e un ridimensionamento del loro potere contrattuale. Forse, se in quegli stabilimenti si fossero prodotti altri modelli, a più alti livelli tecnologici, con una diversa organizzazione del lavoro, tutto questo non sarebbe mai successo. Nel resto d'Europa il lavoro non è escluso dalle decisioni, ma coinvolto e chiamato a codeterminare le politiche di impresa: un modello che attenua il conflitto sociale e che diventa strumento di partecipazione e democrazia, consentendo di migliorare la produttività. E' arrivato il momento di aprire anche in Italia una battaglia su questa possibilità. 
Allo stesso modo, abbiamo il compito di difendere le nuove professionalità come i 5 milioni di lavoratori autonomi del nostro paese o come i milioni di lavoratori atipici: dare loro la possibilità di essere rappresentati e di vedere riconosciuta la dignità del loro lavoro è un problema che politica e sindacati hanno per troppo tempo eluso. Vogliamo innalzare il costo del lavoro atipico sopra quello del lavoro dipendente e dare una risposta definitiva ai tanti che, pur facendo un lavoro dipendente sono inquadrati come autonomi. 



Tesi 9 
La scuola che deve cambiare 

Il sistema d’istruzione italiano soffre di problemi vecchi e di nuovi che ai vecchi si sono sommati. L’impostazione gentiliana non è stata mai totalmente superata e i suoi riflessi, accentuati dal 2008 in poi, hanno ancora straordinaria influenza. È sostanzialmente una scuola pensata in un mondo vecchio per un mondo vecchio, che non viaggia alla stessa velocità della realtà fuori le mura dei propri istituti, ma che è anzi rimasta indietro. Ciò che rimane è la netta divisione fra chi da subito intende continuare a studiare e chi invece sa di dover iniziare a lavorare. Le due strade erano state pensate non per essere diverse, ma per essere divise con l’idea di separare le mani dalla testa e, soprtattutto, di separare chi usa le mani da chi usa la testa. La separazione avveniva e avviene ancora molto presto. La gerarchizzazione dei percorsi formativi fa sì che scelgano i licei solo gli studenti che escono dalle scuole medie con un buon voto. Chi proviene da un contesto sociale di maggiore svantaggio mentre gli altri scelgano i percorsi tecnici e professionali, dati alla mano.
Una scuola che divide, insomma, tra ricchi e povero, ma anche tra italiani e non. 
Misure come il tetto massimo del 30% di alunni stranieri per classe si ripercuotono sulla testa dei giovani alunni stranieri, che si vedono respinti: il sistema scolastico dovrebbe essere per loro la porta della cittadinanza e non un primo enorme segnale di esclusione. L’incremento delle iscrizioni da parte di alunni extracomunitari dovrebbe far pensare a come aiutarli e non a come difendersi da loro e dalla loro cultura. 
Il nostro paese è drasticamente cambiato come il nostro sistema industriale e i mezzi di informazione e di apprendimento e la scuola ha in piccola parte e con timidezza introiettato e in larga scala snobbato, eclissandosi nell’autoreferenzialità, queste epocali trasformazioni.
Il modello di trasmissione delle nozioni e della creazione di nuovi orizzonti conoscitivi è rimasto nel vincolo del dualismo Docente-Discente, della pratica nozionistica, fondata sulla trasmissione e apprendimento su un solo ed esclusivo manuale. Quest’idea, ancorata al bisogno di alfabetizzazione di cinquant’anni fa, deprime il senso della trasmissione e della ricerca della conoscenza, alimentando il carattere chiuso del sapere. 
La feroce opera di impoverimento di questi anni vive dentro la logica del pensiero dominante.
È venuta così dirompente una spinta verso la declassazione del sapere, pericolosa per un paese con grandi ambizioni industriali. 
La nostra proposta riparte dall'approvazione di una legge quadro nazionale sul diritto allo studio e creazione di un vero welfare studentesco che abbia come primo obiettivo l'abbassamento dei livelli di dispersione scolastica, nel nostro paese ferma al 20%, con l'integrazione del biennio delle medie superiori sul modello adottato in Emilia-Romagna.
Crediamo che serva un piano per l'edilizia scolastica e che le spese a carico degli enti locali vengano poste fuori dal patto di stabilità. 
L'autonomia è lo spazio vitale della scuola ormai da tempo: vanno aumentati i finanziamenti e va implementata la capacità di rapporto tra gli organi collegiali della scuola per realizzare davvero un didattica nuova e partecipativa, con particolare attenzione all'istruzione tecnico professionale, troppo a lungo trattata da cenerentola del sistema formativo. 



Tesi 10 
Rifare l'università
Le «magnifiche sei», le più prestigiose università americane, stanno inaugurando loro succursali ad Abu Dhabi, università francesi ed inglesi fanno lo stesso nel golfo persico ed in estremo oriente. Hub della conoscenza, risorse umane e tasse universitarie a 53.000 dollari l'anno. Si parla degli investimenti per la conoscenza con gli stessi termini che si usano per la moneta. 
Dall'altra parte, le politiche dei grandi paesi emergenti: nel Brasile di Lula 24 milioni di persone sono uscite dalla miseria e la scolarità ha raggiunto il 90% dei bambini, le scuole tecniche si sono moltiplicate, mentre oltre 10 milioni di cittadini hanno beneficiato di programmi di qualificazione professionale. 
Il governo indiano acquista quest'anno un tablet ultraeconomico da 35 dollari destinato agli studenti delle università del subcontinente. Per combattere il digital divide 10 milioni di pezzi saranno distribuiti ad altrettanti studenti del subcontinente. 
Nelle scelte sulle politiche per la conoscenza, ci sono due opzioni culturali distinte ed antitetiche tra loro: il sapere come possesso individuale i cui costi ricadono sul singolo o la natura cooperativa e il valore sociale del lavoro intellettuale, i cui costi sono divisi tra stato e sistema produttivo. Queste scelte si misurano nelle leggi di bilancio di ciascun governo.
L’obiettivo di una politica della conoscenza di scala europea, dev'essere la costruzione di un grande spazio pubblico dell’istruzione e della ricerca, che consenta di creare, innovare e produrre includendo nel processo di crescita economica quelle fasce di popolazione escluse dal mercato, dal lavoro e dal sapere. 
La qualità della ricerca e della didattica non si crea per legge. Per l'università italiana è prevalsa la formula della riforma del secolo, con unico effetto quello di appesantire la burocrazia e complicare i piani di studio. Non ci servono altre leggi per l'università, bensì politiche per gli atenei frutto di condivisione degli obiettivi, processi che chiamino al lavoro gli operatori interessati alla collaborazione e facciano cooperare le diverse iniziative. Vogliamo un'università più grande, più ricca e più autonoma. Il blocco delle immatricolazioni universitarie nel corso dell'ultimo decennio, con un fenomeno di crescita delle iscrizioni nelle università private, rende più chiaro il problema. I giovani non si iscrivono più all'università perché non la reputano utile per migliorare il proprio futuro, chi può sostenerne i costi si iscrive alle private. 
Attorno all'università pubblica si è sollevato un polverone che nasconde la vera natura delle cose, le difficoltà dell'università dopo la Gelmini sembrano ridursi al concetto di sprechi da combattere. La verità è che sono 45.000 gli studenti idonei non beneficiari di borsa di studio, che non si conta il numero di dottori di ricerca senza borsa, e che l'assistenza sanitaria per i fuorisede è limitata nelle città di residenza o in quelle di domicilio. 
Il problema oggi non riguarda solo le difficoltà interne alle università. 
Infatti la ricerca dà ancora oggi notevoli risultati su scala internazionale, soprattutto se rapportati all’esiguità dei finanziamenti e del numero di ricercatori. La formazione degli studenti, pur in presenza di problemi infrastrutturali e organizzativi, è di ottimo livello se comparata con gli standard europei. Si tratta anche di restituire prestigio ad una istituzione troppo a lungo maltrattata. 
Il problema è rappresentato dagli esigui investimenti privati in istruzione, poiché basso è l'interesse delle imprese per prodotti innovativi, piccolo dunque è il ruolo che l'università svolge per il paese. 
La natura del tessuto produttivo, fatta in gran parte di piccole e medie imprese avrebbe certamente bisogno di poggiarsi su una rete pubblica di ricerca che generi innovazione tecnologica.
Per un paese che ha inventato la chimica industriale ed ha conosciuto il boom economico post-bellico grazie alle sue università ed istituti di ricerca, uscire dalla crisi scommettendo solo sulla gastronomia e sulla moda è un modo di dichiararsi sconfitti ancor prima di provare.
L'Italia nel mondo nuovo dovrà generare uno straordinario investimento pubblico finalizzato a produrre una enorme eccedenza di sapere ad ogni livello che tiri in altro la domanda molto debole dell'impresa. 
L'istruzione rimane un formidabile strumento per costruire un senso comune, una sorte condivisa tra i membri di una comunità, la via per diventare cittadini e non solo consumatori europei. Crediamo vadano raccolte e rilanciate le proposte della commissione europea per aumentare le possibilità di progetti di mobilità ai fini di studio e di ricerca per gli studenti nei paesi europei. In un'Europa della élite, l'erasmus è una delle rare esperienze di massa riconosciuta agli abitanti dei 27 paesi. 



Tesi 11 
Un diritto con tre gambe: per andare più veloce, perché nessuno resti indietro

Immaginiamo un modello di diritto allo studio per gli studenti universitari con una struttura che abbiamo definito a tre gambe. La prima è quella legata al diritto allo studio che conosciamo oggi che va implementato e per cui è necessario definire i LEP regionali per uniformare il trattamento offerto su tutto il territorio nazionale. Questa parte del diritto allo studio è destinata alle fasce più povere della popolazione e deve garantire la possibilità per tutti, secondo il dettato costituzionale, di accedere ai gradi più alti della formazione. 
La seconda gamba è indirizzata invece a tutti coloro che per limiti di reddito non accedono alle prestazioni del primo canale, ma ai quali è preclusa la libertà di scelta del proprio percorso universitario. Non si è veramente liberi di studiare, soprattutto al di fuori del proprio comune di residenza, se non esiste una politica per le residenze universitarie, una politica per gli affitti, una politica per i trasporti così come è necessaria una politica per affronti in generale i diritti di cittadinanza per gli studenti fuorisede. 
Infine è necessario garantire un terzo canale di assistenza per le eccellenze, basato unicamente su criteri di merito fortemente selettivi, per sostenere una rete di eccellenze nell’università italiane. Si tratta di sostenere ed implementare il sistema delle scuole speciali e delle scuole di eccellenza e di metterle al servizio dell’università italiane. Non si può confondere il merito con le scarse opportunità così come non si può confondere il diritto allo studio con il riconoscimento delle
eccellenze. Un sistema di diritto allo studio siffatto vedrebbe complemantari i criteri di reddito
e di merito, con una maggiore importanza dei criteri di reddito nella prima gamba piuttosto che nella seconda e con una crescente importanza del merito passando dalla prima alla terza gamba. 



Tesi 12 
Valutare l'Università 

Con l'avvio del lavoro dell'ANVUR, si può aprire una pagina nuova per la valutazione della ricerca e della didattica nelle università italiane. Proponiamo di far rientrare tra i parametri di valutazione degli atenei anche la valutazione della didattica affidata ai singoli studenti. Questa dev'essere effettuata con scadenze regolari e riguardare i singoli insegnamenti, inserita nei piani GISS (online) e resa pubblica. 
Altro parametro di valutazione per l’attribuzione della quota premiale del FFO, deve riguardare le strutture e tutti i servizi e le agevolazioni offerte allo studente: dal diritto allo studio in senso ampio fino all'attivazione di tirocini e stage, accordi di programma fra atenei e mondo produttivo. 



Tesi 13 
Lavorare all'Università, lavorare per l'Università

Il quadro di sottofinanziamento al settore della conoscenza ha comportato una compressione del personale universitario e ha generato insicurezza nei giovani che vedono nell'università un possibile sbocco lavorativo. Chiediamo di costruire un sistema reale di tenure track, con una programmazione a lungo termine che permetta il passaggio in ruolo dei precari che hanno ottenuto risultati nel loro lavoro di ricerca. Va inoltre bloccato il sistema perverso che consente di sfruttare il lavoro di didattica non retribuito offerto dai dottorandi o dai ricercatori. Per sbloccare una generazione serve intervenire nei luoghi di formazione delle idee, dove nasce l'innovazione e si fa rinnovamento del pensiero. 



Tesi 14 
Realizzare la Costituzione: diritti e cittadinanza 

Lo sviluppo di una società non può essere misurato solo in base al suo Pil: la qualità della vita dei cittadini di una comunità e il grado di apertura di essa deve essere misurato anche in base alle pari opportunità e alle tutele che i cittadini devono avere per poter realizzare i propri progetti di vita, soddisfare le proprie legittime aspettative ed avere reti di solidarietà sociale.I propri percorsi di vita, di studio e di lavoro, la propria sfera degli affetti, i propri diritti e doveri non sono elementi che possono essere ristretti o modificati in base al caso, al censo, alla famiglia o al luogo geografico nel quale si nasce, all’orientamento sessuale. 
I migranti, o tutti i figli di cittadini stranieri nati in Italia, pur pagando le tasse e contribuendo così al benessere della collettività, vedono nelle leggi del nostro Paese ostacoli formali o puramente simbolici che rendono la vita di questi cittadini “semplicemente” più complicata degli altri. Noi, Giovani Democratici, pensiamo che tutte le persone nate in Italia siano cittadine italiane, a prescindere dalla nazionalità dei propri genitori e che il Parlamento si debba impegnare ad approvare una legge che consenta l’acquisizione della cittadinanza italiana per tutti i bambini nati in Italia, da genitori con regolare permesso di soggiorno. 
L’occupazione femminile nel nostro Paese è ancora lontana dalla media europea: le ricerche ci dicono che i paesi che escludono maggiormente dal mondo del lavoro le donne sono anche paesi che crescono meno; ripristinare la legge 188/07 varata per cancellare l'abuso delle dimissioni in bianco, il potenziamento della rete di servizi per l’infanzia, l'incremento dell'indennità per il congedo parentale facoltativo, incentivato per gli uomini e il congedo di paternità obbligatorio possono favorire la conciliazione della scelta di maternità con il mantenimento dell’occupazione, creando una gran vantaggio per l’Italia sia in termini culturali che economici. 
I cittadini omosessuali, non potendo accedere ad alcun istituto giuridico che riconosca pubblicamente la loro unione, vivono una condizione di continua discriminazione, dal punto di vista formale, nei diritti esigibili in quanto coppia e nella negazione di tutti i diritti e garanzie che l’ordinamento prevede nella tutela del partner debole e nelle situazioni collegate alla morte di uno dei due. Siamo da sempre contro qualsiasi forma di omo e transfobia, crediamo in una società inclusiva e aperta alle differenze, dove l’orientamento sessuale delle persone non può e non deve essere motivo di svantaggio. Per questi motivi, per l’idea di Paese e per l’indiscussa urgenza di riportare uno dei paesi fondatori dell’Unione europea nell’alveo delle democrazie avanzate e civili che sosteniamo la necessità di una legge che disciplini i diritti e i doveri delle coppie composte da persone dello stesso sesso, con un istituto giuridico analogo, nelle tutele e negli obblighi, agli altri istituti, in linea con la sentenza numero 138/2010 della Corte Costituzionale, il contrasto di ogni forma di violenza, sia verbale che fisica, nei confronti delle persone lgbt attraverso l’estensione della legge Mancino per i crimini d’odio anche all’orientamento sessuale. 
La questione meridionale non è la questione delle rivendicazioni corporative di pezzi di territorio: è il problema della qualità dello sviluppo del nostro paese, è il tema dell’unità nazionale, è l’idea di un’Europa che parta dal Mediterraneo. Dal tema dei trasporti a quello della green economy, dalla vicenda dell’urbanistica a quella dell’occupazione e delle politiche industriali, dalla questione dell’accesso al credito a quella delle politiche sociali, dalla lotta alla dispersione scolastica e alla criminalità organizzata ai maggiori investimenti per il diritto allo studio e la ricerca, dal mezzogiorno e per il mezzogiorno passano le grandi sfide che possono cambiare il nostro paese. Nel sud del paese il Pil per abitante è di poco superiore alla metà di quello del centro-nord; il tasso di disoccupazione è più del triplo; il lavoro sommerso è il doppio; la dotazione di infrastrutture e servizi di trasporto è meno della metà.
In un contesto nel quale si sommano ritardi storici, una spesa pubblica pro capite ancora inferiore del 7% rispetto alla media nazionale e un sistema diffuso di sperperi e corruttele, un pezzo di paese continua ad arrancare sotto la spinta di politiche miopi e localistiche, condannando alla marginalità un’intera generazione che, nel migliore dei casi, emigra: nel peggiore non può né esprimere le proprie capacità né avere una mano tesa nelle difficoltà. 
Dobbiamo costruire un nuovo modo di concepire il mezzogiorno e la sua funzione.
Nell’area dove risiede la popolazione più giovane del paese e che ha tratto minori vantaggi dallo sviluppo industriale del secolo scorso, occorrerebbe ripartire dall’economia verde, potenziale elemento catalizzatore di una nuova idea di rapporto tra ricerca, innovazione e e produzione, mettendo al centro e a sistema le potenzialità del mondo accademico e le peculiarità ed il patrimonio territoriale. Ripensare le politiche attive del lavoro, non tagliando la spesa pubblica ma riformandola, responsabilizzando i soggetti interessati e le istituzioni e ripristinando un sistema di accesso al credito che dia ossigeno innanzitutto alle piccole e medie imprese e alle idee di tanti giovani che non hanno alle spalle ricchi patrimoni come garanzia. 
Ancora oggi nel nostro paese molti segmenti della società non hanno diritto ed accesso alla cittadinanza così come definita e tutelata dalla nostra Costituzione. Che siano migranti o donne, persone con un orientamento sessuale differente o nate in una periferia piuttosto che nel sud del paese, questi cittadini, seppur nel rispetto delle regole e con le stesse capacità di tutti gli altri, vedono innanzi a loro un muro trasparente, una barriera, a volte culturale, a volte normativa, che non permette loro di poter sostanzialmente concorrere al raggiungimento dei proprio desideri e aspettative di vita. 




PARTE III – LE PRIMARIE DELLE IDEE 


Se il fine giustifica i mezzi, chi si incaricherà di giustificare il fine?
 A questa domanda che la mente lascia in sospeso la rivolta risponde: i mezzi” 
Albert Camus 

Tesi 15 
I Giovani democratici e l'Italia che cambia 

Abbiamo provato fin qui ad illustrare qual è la nostra idea di società, facendola discendere da un tentativo di analizzare questo mondo al contrario. 
Il problema europeo ed italiano è oggi come riconiugare il compromesso fra democrazie, mercati e sviluppo. La società della conoscenza è per noi la risposta, l'incarnazione di un nuovo umanesimo possibile. Di questo progetto vogliamo essere strumento coerente. 
I Giovani democratici sono arrivati al loro terzo anno di attività, iniziata con le primarie del 2009.
Abbiamo, in questi tre anni, attraversato cambiamenti epocali dopo i quali nulla sarà più come prima; di queste trasformazioni anche l'Italia è stata teatro. Come mettere tra parentesi, inizio della fine del berlusconismo, una fine che ancora si deve compiere, le gradi mobilitazioni delle donne e dei diritti, della scuola e dell'università, il 9 aprile dei precari, la vittoria dei referendum sui beni comuni e quella delle amministrative? Esse sono state parte di un racconto del cambiamento possibile che l'Italia preparava e che rischia di restare congelato dai venti della crisi. Sono il diario di un'Italia possibile, che iniziava a superare il dualismo berlusconiani - antiberlusconiani e tornava a mettere l'accento sulla quotidianità delle italiane e degli italiani. 
Di questa stagione i Giovani democratici sono stati, orgogliosamente e spesso in anticipo, parte. 
Ed è stata la straordinaria spinta di questi mesi che ci ha consentito di dispiegare le vele della nostra nave ed attraversare l'Italia, acquisendo riconoscibilità e protagonismo politico. 
E' bastato farsi trovare pronti, con un'organizzazione che aveva già messo i piedi nel territorio e che era diventata abbastanza alta da guardarsi attorno. 
Da questo punto di vista è stata determinante la volontà di migliaia di ragazze e ragazzi di partecipare, la scelta di costruire un'organizzazione per fare movimento ed essere “ponte”, la tenace rivendicazione di autonomia politica dal Partito democratico, la nascita delle due associazioni Federazione degli Studenti e Rete universitaria nazionale. 
E' stata questa stagione a chiudere la fase di costruzione dei Gd iniziata con le primarie del 2009. 
Costruire i Giovani democratici ha significato soprattutto dovere superare i limiti di un'organizzazione giovanile nata da un voto che ci ha dato degli organismi di direzione ma non ha consentito un'autentica riflessione collettiva sulla funzione dei Gd, sulla loro rotta, sui loro obiettivi. 
Questo congresso è l'occasione per definire al meglio quale sia la nostra Carta d'identità, per discutere ed insieme decidere, sottraendo i Giovani democratici a narrazioni banalizzanti quando non offensive. 

Un'organizzazione autonoma per anticipare il cambiamento 

Non era detto, tre anni fa, che saremmo esistiti. Ci siamo costituiti nella certezza che servisse costruire uno spazio di iniziativa generazionale autonomo, unitario ed aperto. Vogliamo candidarci a completare il processo di fusione tra le culture politiche che hanno dato vita al Pd, attraverso una nostra lettura della crisi e delle sue possibili vie d'uscita, partendo da quell'idea di umanesimo forte che è stata il grande tratto comune delle grandi esperienze di progresso dell'Italia, a partire dal movimento dei lavoratori. Vogliamo affermare innanzitutto il punto di vista delle giovani generazioni all'interno del partito democratico, nella certezza di poter essere un ponte tra un mondo giovanile in rapidissima evoluzione ed il nostro partito. Abbiamo preferito farlo creando i Giovani democratici, attraverso uno la creazione di uno strumento politico che fosse nostro, che ci consentisse di misuraci con l'analisi del mondo che cambia, che ci consentisse di dire la nostra e di farlo insieme. 
Questa scelta derivava, ed ancor oggi viene confermata, dalla debolezza delle possibili alternative: o la militanza diretta dei giovani nel partito democratico e nelle sue correnti, o la strada leaderistica di chi crede che il rinnovamento di un partito possa nascere dalla semplice emersione di una leadership nuova. La nostra è la ricerca di un percorso collettivo, che ha il suo perno nella battaglia delle idee tra visioni diverse della società e che a quello vincola le battaglie di rinnovamento. La precondizione di ciò è la nostra autonomia, intesa non come dato statutario e burocratico, ma come capacità di ricerca, di elaborazione e di battaglia. Essere autonomi per noi significa esserlo dal Partito democratico e dalle sue componenti politiche. 
A forma di rete
Non crediamo che siano le istituzioni a cambiare le società. Pensiamo anzi che se non cambia la società con difficoltà la politica potrà produrre riforme in senso progressista e democratico. Per questo vogliamo rafforzare il rapporto con le forze sociali ed i movimenti che condividono la nostra lettura del cambiamento, nella consapevolezza di avere funzioni diverse e nel rispetto delle reciproche autonomie. Vogliamo organizzare una generazione che, a dispetto della retorica vittimistica, esprime enormi potenzialità. Crediamo che per farlo serve inventare spazi, reti e nuove strutture. La rete “Il nostro tempo è adesso” , il rapporto con il comitato “Acqua bene comune”, le relazioni che abbiamo costruito in questi anni con realtà del sociale che vogliono condividere la battaglia per una società diversa è e resta una nostra priorità. 
Ripartiamo dai circoli e dalle federazioni come luogo di elaborazione e costruzione di iniziativa e non solo di contesa della cariche, ma abbiamo più che mai bisogno di continuare a spingerci in avanti. Un'organizzazione moderna ha bisogno di vivere dove la sua generazione vive. Intanto le scuole e le università, all'interno della quali rafforzare la Federazione degli studenti e la Rete universitaria nazionale, non semplicemente come cartelli elettorali, ma come strumenti di discussione, elaborazione e partecipazione in spazi che, dopo le grandi riforme dell'autonomia, sono essenziali per la costruzione di una moderna società della conoscenza e che hanno bisogno del contributo decisivo della componente studentesca per non ripiegarsi in maniera autoreferenziale. Alle due associazioni garantiamo autonomia politica e continua relazione con il lavoro dei Giovani democratici. 

La democrazia come fine e come mezzo 

Non crediamo nell'idea di democrazia non solo come insieme di procedure, per noi la democrazia è un processo attraverso il quale chi non ha voce se la riprende, attraverso il quale i deboli possono rovesciare le decisioni dei forti. Parte integrante del nostro progetto è restituire potere ai cittadini mediante la democrazia rappresentativa. Ciò comporta una battaglia per restituire peso ai partiti e ai parlamenti, ma significa soprattutto coltivare la democrazia come strumento anche al nostro interno, allargando gli spazi di partecipazione alle decisioni e garantendo l'autonomia e il pluralismo dei Giovani democratici. Dare voce a chi non ce l'ha passa anche per la nostra capacità di interpretare e dare voce al pensiero dei nostri iscritti. 


Gli eletti dei Giovani democratici: dal basso verso l'alto 

Pensiamo che le migliaia di eletti nelle amministrazioni locali non siamo un risultato da esporre in vetrina ma parte essenziale del nostro progetto di cambiamento, alla luce dei poteri straordinari che gli enti locali hanno e nella speranza che possano essere anch'essi anticipatori del cambiamento. In questi anni le amministrazioni sono state il terreno di sperimentazione di pratiche di cittadinanza e partecipazione avanzata, di costruzione del welfare comunitario, di ridefinizione delle politiche energetiche ed ambientali, di dialogo tra culture, di integrazione degli immigrati, di avanzamento sul terreno dei diritti civili. Di questo fenomeno noi ci sentiamo e vogliamo essere parte, senza separare il ruolo dei nostri giovani eletti dai compiti dei Giovani democratici, ma valorizzando questo rapporto come parte essenziale del nostro disegno di cambiamento della società. 
Cambiare le idee, cambiare gli uomini, rinnovare il PD
Non crediamo che il rinnovamento si faccia partendo dall'età anagrafica ma non accettiamo l'idea che ciascuno debba mettersi in fila aspettando in buon ordine il proprio momento. Il nostro rinnovamento passa per una lettura dei problemi e per una proposta politica nuova.
Il centrosinistra negli ultimi venti anni ha più volte salvato il Paese, ma le sue modalità di governo, sono spesso state subalterne al pensiero unico. Dall'accettazione culturale del presidenzialismo di fatto, fino all'idea che più flessibilità avrebbe automaticamente portato a maggiore occupazione, passando per l'idea che la politica non debba intervenire nell'economia, spesso il centrosinistra più che riformista è sembrato debole. Noi vogliamo cambiarlo, nelle facce e nelle idee, convinti che non ci sarà leader che da solo volterà pagina, ma che per cambiare occorra l'impegno di una intera generazione. 


"Con la politica-spettacolo i cittadini possono solo applaudire o star zitti.
 I politici non fanno domande sul futuro cui associare i cittadini,
 essi danno solo, o fingono di dare, risposte sul presente" 
 Vittorio Foa - Passaggi 




Tesi 16 
Questo congresso e le nostre proposte: le primarie delle idee

Il governo Monti è nato per fronteggiare un'emergenza. Proprio per questo, il tempo di questo governo non è una parentesi nella quale le forze politiche potranno esimersi dall'esprimere il proprio punto di vista, per quanto potrà essere diverso da quello di un esecutivo al quale hanno espresso leale sostegno. I provvedimenti dei prossimi mesi, infatti, non saranno neutrali. Chi pagherà e chi no, dove saranno indirizzati gli investimenti, quali spese saranno tagliate, come sarà modificata la disciplina del lavoro: sono tutte decisioni politiche che lasciano un segno.
Il Partito democratico ha scelto di sostenere il governo, ma non è al governo. 

Noi crediamo che questo non sia il momento di attendere in silenzio, aspettando le prossime elezioni politiche perché sarebbe ingiusto verso il Paese e la nostra generazione. Al contrario, alla fine del ciclo politico berlusconiano, siamo convinti che rimettere in sesto l'Italia passi per un rinnovato protagonismo delle forze politiche, per una profonda riforma del sistema istituzionale e per un dibattito pubblico che renda comprensibile cosa unisce e cosa divide i principali partiti.  

Noi vogliamo costruire un progetto partecipato: intorno a questo nodo in questi anni si sono impegnati in molti, riuscendo raramente a coniugare la partecipazione con la decisione vincolante.
In questi anni i territori sono stati spesso protagonisti dell'avventura politica dei Giovani democratici, per questo vogliamo svolgere dentro il congresso un percorso di discussione aperto che ci porti ad avere un nostro manifesto programmatico attorno al quale costruire l'attività dei prossimi anni, le nostre primarie delle idee. 

Lavoro e welfare, diritti e cittadinanza, scuola, università e ricerca, questione femminile, sviluppo sostenibile e lotta alle rendite saranno le nostra parole chiave, intorno alle quali costruire un “libro bianco” dei Giovani democratici su cui interloquire con il Governo Monti.

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